Il 29 marzo viene presentato al Maxxi Performative Habitats dell’artista italo finlandese Egle Oddo. Un’iniziativa a cura di Lori Adragna e realizzata grazie al sostegno nell’ambito del programma Italian Council, Performative Habitats. Si tratta di un progetto complesso in cui biologia, botanica e scienze naturali incontrano i molteplici linguaggi delle discipline artistiche: per capirne meglio il concepimento e gli sviluppi ne abbiamo parlato parlato con l’artista.
Come nasce Performative Habitats?
«Performative Habitats è frutto di un lungo percorso che inizia con il desiderio di creare un monumento, una statua, un’opera d’arte pubblica. Il monumento, invece di celebrare l’ennesimo imperatore a cavallo, o l’ennesimo banchiere con un libro sotto il braccio, desiderava celebrare la ciclicità della semina, l’importanza di mantenere I semi delle piante come parte del dominio pubblico inalienabile, e l’importanza dell’azione congiunta di strati diversi della società per garantire la salvaguardia del bene comune costituito dalle piante coltivate e dalle selvatiche. Un monumento che avesse una funzione pratica era già una rottura rispetto alla norma. Tuttavia, avevo un obiettivo ancora più ambizioso, desideravo spostare la funzione dell’arte pubblica, tipicamente al servizio del potere costituito, verso una funzione sociale reale e condivisa. Durante il percorso di progettazione del monumento, mi sono resa conto che non aveva senso spendere un patrimonio per forgiare un enorme pezzo di bronzo, quando invece era la sua funzione che andava supportata. E così, pive nel sacco, mi resi conto che tutto sommato anche dentro di me c’era un piccolo imperatore che esigeva la sua celebrazione. Stabilito questo, ho archiviato il progetto del monumento fisico come parte di un processo di arricchimento conoscitivo, e ho dato spazio ad aspetti legati all’azione individuale e collettiva con i semi e con le piante. E così é nato Performative Habitats».
Su quali tematiche e visioni si è sviluppato?
«Performative Habitats cosí come si presenta attualmente, é un progetto che si basa su alcune intuizioni derivate dallo studio della vita vegetale, nasce dopo una investigazione sull’identità delle piante attraverso la lente delle scienze naturali, e attraverso le analogie presenti nelle discipline umanistiche, inclusa la ricerca sulla legislazione che regola la riproduzione e la circolazione dei semi. Come definisco l’habitat? Prendendo spunto da Möebius, per me l’habitat si definisce attraverso la biocenosi, ossia l’insieme delle forme viventi presenti in un biotopo e le loro relazioni. Un habitat è un luogo identificabile e circoscritto dove una popolazione definita di organismi vive e prospera, è un sistema aperto, potenzialmente accessibile all’azione diretta di qualsiasi individuo. Il greto di un fiume, una camera, la striscia di incolto sul ciglio di una via, il laboratorio di un saldatore, una foresta, l’interno di una scarpa, una palude, o qualsiasi luogo che presenti la somiglianza di una poliorganicitá in movimento, é per me egualmente interessante. Nella mia ricerca non stabilisco una differenza sostanziale tra ‘naturale’ e ‘artificiale’ in un habitat. Mi incuriosisce di piú stabilire un punto di osservazione per scorgere come l’autodeterminazione si manifesti sia a livello individuale che collettivo, e dunque sono le relazioni tra gli organismi in un habitat che mi interessano, gli spazi interstiziali, le polifonie, le scelte emotive. Nella mia formulazione di un’ipotesi forse assurda, gli habitats talvolta performano. Cosí come gli uccelli sovente cantano. Ora, é molto piú facile udire un uccello cantare piuttosto che vederlo cantare. Analogamente, sempre nella mia ipotesi, ritengo che sia piú facile sentire un habitat che performa (nel senso del tatto), piuttosto che percepire questo fenomeno attraverso l’esperienza audio-visiva. Ed è proprio questa priorità del tatto che è il tratto distintivo di Performative Habitats».
Si tratta di un progetto itinerante, quali sono state le sue tappe salienti?
«Curato da Lori Adragna con la quale ho instaurato una relazione sinergica durante l’intero percorso di circa un anno, ha comunque un carattere corale e si basa su molteplici collaborazioni e co-produzioni. È partito da Zagabria con una mostra monografica alla galleria GMK e una performance pubblica all’esterno del padiglione Meštrović, poi una sosta a Roma con una performance all’Orto Botanico La Sapienza, e si é concluso al XXV Festival di Arti Visive di Mänttä, in Finlandia. Queste tappe sono state intercalate da una serie di seminari, di incontri di studio, di performances e di residenze, in collaborazione varie Università, con le curatrici Lea Vene, Basak Senova, Anna Ruth, Eva Comuzzi e Orietta Masin, con la botanica Anna Scialabba, il ricercatore Karim Ben Hamed, i filosofi Elisabetta di Stefano e Leonardo Caffo, la sociologa Maria Giovanna Musso, l’antropologo Giorgio de Finis, e il genetista Salvatore Ceccarelli. Tutti questi contributi, cosí eterogenei tra loro e che ritroverete anche nel libro, riflettono il desiderio di raccontare la ricerca artistica basata sulla complessità e sulle inter-relazioni tra le discipline, descrivendo il mondo da diverse prospettive allo stesso tempo».
Da anni sei impegnata in una investigazione sulle piante estremofile, come chiave per una agricoltura del futuro. Ci spieghi gli obbiettivi della tua ricerca?
«Le piante estremofile, di cui sono parte anche le alofite resistenti allo stress salino, sono in grado di vivere in condizioni estreme e possono in molti casi contribuire a bonificare il suolo, dando spazio a un’ampia biodiversità di installarsi. Agiscono come pionieri, come esploratori che preparano la via per altre piante meno robuste e meno resistenti. Osservandole nei diversi habitats ho rilevato delle caratteristiche che ho cominciato ad analizzare, e poiché nelle mie installazioni pianto insieme semi di piante coltivate con le selvatiche, ho fatto lo stesso con le alofite e con piante edibili per uso agricolo. I risultati sono veramente incoraggianti, come é possibile osservare in parallelo nella ricerca scientifica in campo effettuata dal Centro di Biotechnologia di Borj Cedía a Tunisi, con il quale collaboro. Mi piace attingere alle scienze naturali, e ho sempre ben chiaro che gli obiettivi e i metodi possono essere complementari, ma mai sovrapponibili o interscambiabili gli uni con gli altri, si tratta di rigore scientifico e di attendibilità anche nel campo umanistico».
In che modo la performance art può divenire strumento utile per riconvertire le pratiche quotidiane e stabilire nuove modalità di produzione sostenibili per l’ambiente?
«La performance art presenta aspetti molto concreti. Si basa sul corpo, sulla presenza, sull’azione, sulla percezione, sul controvertire le funzioni, i ruoli e le polarità dei luoghi, e quindi per me è diventata parte di un metodo che utilizzo per muovere l’emotività ma anche la razionalità dei partecipanti. Ad esempio la pratica di raccogliere, conservare e diffondere dei semi, non é così comune come si pensi. Già solo questo gesto va nella direzione della sostenibilità. I semi sono potenzialmente accessibili a tutti, ma nella realtà non lo sono cosí facilmente. Rendere visibili i limiti e le contraddizioni con semplicità e in modo diretto, si presta alla performance».
Qualche anticipazione su quello che vedremo al Maxxi …
ll film Perfromative Habitas #7 parla di un segmento preciso della ricerca. È diviso in tre capitoli: Il Tatto, La Ricerca, e Una Esplorazione Botanica, e racconta della percezione del mondo vegetale da un punto di vista emotivo, scientifico e filosofico. All’irrompere della pandemia, nel marzo del 2020, due performers decidono di continuare a lavorare insieme nonostante la distanza forzata e sviluppano una performance che accade simultaneamente connettendo la Finlandia e la Tunisia. Per indagare la sensibilità vegetale, si concentrano sul senso del tatto: le molteplici maniere in cui tocchiamo, sfioriamo, accarezziamo le piante e su come esse rispondano agli stimoli tattili. Il ruolo del tatto viene messo in risalto anche nella sperimentazione scientifica che si presenta come un teatro perfetto per imparare a discernere quale sia l’avanzamento tecnico che può davvero portare benefici alle generazioni future. Il film si conclude con una esplorazione semplice ma illuminante dove si deduce l’importante funzione della millenaria conoscenza botanica, delle piante e del loro uso.