Intervista a Rebecca Moccia

Spazi compenetranti: quando il contesto incide sull’opera

DA INSIDEART #122

«Sono un’attivista di categoria. Ho sempre ritenuto importante, ancor prima di realizzare opere d’arte, creare un ambiente favorevole, giusto ed equo per fare arte, rendendo il settore sostenibile per tutti gli attori che vi operano», spiega Rebecca Moccia parlando di AWI: ArtWorkersItalia, Associazioneautonoma e apartitica, di cui l’artista è tra i fondatori, nata con la prima ondata della pandemia, con lo scopo di riconoscere, tutelare, dar voce e stimolare al dialogo, tutti coloro che operano nel settore dell’arte contemporanea, ambito sul quale ancora aleggia una coltre di nubi. Le opere che Moccia realizza non sono uno statement che dichiara la sua posizione rispetto a questi e altri argomenti di attualità, ma un lavoro di scoperta.

Vi è l’idea che attraverso le esperienze si possono maturare delle riflessioni. «I miei lavori – racconta l’artista – hanno a che fare con politica, ecologia, questione di genere poiché sono temi che fanno parte del contesto in cui l’opera si inserisce e che impattano su di essa. Sono aspetti che agiscono continuamente all’interno di qualsiasi cosa l’essere umano esperisca, anche se non ne è consapevole. Tuttavia nel mio approccio rifuggo l’aspetto didascalico: spero che dai miei lavori, dal percorrere determinate situazioni, nasca una consapevolezza personale e libera circa questi aspetti della nostra vita».

Rebecca Moccia
Da qui tutto bene, 2019, photo Leonardo Morfini, courtesy Galleria Mazzoleni

Per questo legame con il contesto, Moccia definisce le sue opere context specific. È interessata non solo alla dimensione spaziale ma anche ai luoghi, intesi come entità socio-culturali in cui uomini, immagini e ambienti si intrecciano. Dimensioni in continuo movimento. «Considero – dice – le mie opere strutturali. Quando agisco in un luogo guardo alla sua storia e alle storie delle entità umane e non umane che lo hanno attraversato e su di esso hanno agito. Questi fattori interni al luogo si uniscono al contesto esterno, e il tutto diviene parte del lavoro». L’artista realizza con le sue installazioni degli ambienti inclusivi che consentono di ampliare il proprio sguardo generando degli iper-luoghi in cui essere connessi con se stessi e con gli altri, condividendo le proprie esperienze fisiche, temporali e virtuali.

Esempio di questa compenetrazione è Da qui tutto bene, istallazione realizzata per il chiostro del Museo Novecento di Firenze. «Il museo in origine era un convento – spiega Rebecca Moccia – questo lo rende architettonicamente chiuso, silenzioso e isolato dal mondo. Il mio lavoro in questo contesto si è basato sull’impossibilità, anche nella fruizione estetica, di isolarsi dal contesto, da quello che accade all’esterno». Per questo decide di inserire la realtà nel museo, incollando al rovescio la carta blue back, utilizzata nella cartellonistica, creando così una possibile ombra che penetra nel chiostro: «Il chiostro – aggiunge Moccia – è stato costruito per non avere ombre, idea che rafforza la volontà di isolarlo. Ho realizzato una proiezione di come sarebbe stata l’ombra, calcolata attraverso l’impiego di un software di illuminotecnica, se non ci fosse stato il tetto. Ho creato così delle ombre in negativo che ricalcano la luce dell’alba nel giorno dell’opening della mostra».

Rebecca Moccia
Da qui tutto bene, 2019, photo Leonardo Morfini, courtesy Galleria Mazzoleni

La carta copre parzialmente coppie di sinonimi maschili e femminili, provenienti dalla politica, dipinte su muro, tratte dalla serie Un Linguaggio Inaudito. L’installazione è completata da quattro altoparlanti che trasmettono ininterrottamente notiziari e dibattiti di attualità in italiano e in inglese. «Si creava – chiarisce Rebecca Moccia – una situazione in cui era impossibile isolarsi. Il titolo dell’opera era un modo ironico per mostrare che non esiste un luogo in cui dire “da qui tutto bene”. È stata quasi una profezia della pandemia».

I suoi lavori non occupano uno spazio ingombrandolo, ma creano delle situazioni con gesti minimi e poco invasivi, come accade in Coraggio, scritta che l’artista ha realizzato con uno smalto in un giorno di pioggia, che ne ha sbiadito i contorni. Moccia si appropria di uno spazio, per rivendicare la possibilità di averne uno, ma senza farlo in modo plateale: sceglie il tetto di un edificio pubblico di Milano, questo comporta che la scritta sia visibile solo dall’alto, conferendole un’aurea di intimità. La forma è venuta fuori dall’unione del gesto con le condizioni atmosferiche. «L’ho realizzata nel periodo in cui mi affacciavo alla professione artistica, in Italia, con tutte le difficoltà, imposizioni, impossibilità che ne conseguono – dice Rebecca Moccia – l’opera è un manifesto, una esortazione, ma è anche un richiesta di poter essere vulnerabili e di poter sbagliare». Essendo opere realizzate con materiali effimeri, quel che resta è diverso rispetto all’opera originaria. Sono dei residui, il ricordo di qualcosa che è stato e che non è più.

Info: https://www.rebeccamoccia.it/

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