Variation Form, mostra collettiva “concertata” da Davide Silvioli per gli spazi del Centro per l’Arte Contemporanea di Trebisonda (Perugia), coniuga paesaggio urbano e natura; proponendo sottili interrogativi mira ad una visione che non appiattisca, ma al contrario si giovi delle differenze.
Lo fa con la scacchiera irregolare delle fotografie di Dimitri Angelini, che rappresentano l’edilizia industriale di Lipsia e Berlino, mattoni a vista con graffiti e romanticismo pirata, specchi d’acqua, larghi caseggiati, cantieri aperti, busti vandalizzati, gru, transenne, restauri in corso. Scatti dove la luce nordica delinea ogni dettaglio in maniera minimale. Lo fa con Antonio Barbieri, che indaga l’organico e il naturale, dipanando orizzontalmente o in agglomerati la struttura intrinseca di parti animali e vegetali. Seguendo principi matematici come il frattale, raggiunge risultati di bellezza estetica e ampio respiro. Lo fa con Isaco Praxolu, che realizza un’affascinante installazione plurimaterica. Su una fotografia sono fissate delle candele a comporre la parola “true” in codice Morse. Bruciando, la cera ricade goccia a goccia sulla seconda sezione della fotografia, adagiata a terra, andando a ricomporre col tempo la stessa parola. Solo la paziente attesa svelerà la verità oggettiva. E lo fa con Samantha Passaniti, che nel progetto Coesistenze connette due plinti di diverse altezze (simbolo di svettanti palazzi urbani o “torri d’avorio” del consumismo alienante) tramite un ponte di gelsomino, in Cieli su cieli ricostruisce la forma di un albero, infine in Resilience una pianta succulenta persiste facendo capolino da una delle estremità di tubo – piegato ma non spezzato – nell’altra la ruggine corrode la superficie fino a creare un’arma di denti aguzzi.
Abbiamo intervistato il curatore Davide Silvioli che, nonostante il periodo scoraggiante, è riuscito a portare a segno il proprio progetto, alimentando volontà e urgenza di confronto e riflessione.
In che modo le peculiarità di ciascun artista si relazionano fra loro, all’interno del progetto di mostra?
«Ogni artista articola un alfabeto visivo differente dall’altro, se non opposto, pur condividendo approcci di carattere tematico o tecnico. Emerge che, a due a due, indagano lo stesso oggetto o praticano il medesimo strumento espressivo ma solcando tracciati speculativi disparati. Questa impostazione mira a costruire una dialettica multipolare, al fine di dimostrare come da una medesima radice si possano originare desinenze sì differenti ma, ciò nondimeno, al pari di un’aporia, ugualmente valide a sostanziarne le plausibili derivazioni linguistiche. Complessivamente, la grammatica di ogni autore, si inserisce, così, in un chiasmo incessante composto da reciprocità, differimenti e frizioni, che conferisce alla mostra una proprietà transitiva intrinseca, tale da sovrascriverla costantemente, senza attribuirle una quadratura definitiva».
Parli di alfabeto diverso ma di tecnica e riferimenti analoghi, come hai selezionato gli artisti?
«Nella selezione degli artisti, si è cercato di prediligere un criterio di diversità, seppur razionalizzata all’interno di direttrici teoriche e operative ben definite, tale da instaurare, fra una posizione estetica e l’altra, sia momenti di compatibilità che di voluta incongruenza, da intendersi come occasioni sì di contrasto ma non di contraddizione. Il tutto, al fine di moltiplicare le possibilità di esperienza e di lettura della mostra. La ricerca di tanta pluralità, correndo il rischio consapevole di rasentare l’inconciliabilità, corrisponde all’intenzione di restituire uno stigma fedele della contemporaneità artistica che, insofferente a statuti teorici, categorizzazioni e nomenclature, vede la convivenza e la sovrapposizione di fenomeni eterogenei».
Quali sono i punti di convergenza e divergenza che trovi nel lavoro dei quattro artisti in mostra?
«Innanzitutto, per comprendere ciò, occorre individuare le due costanti che sorreggono il sistema di questa mostra: ovvero la riflessione sui risvolti estetici del dato naturale, per Barbieri e Passaniti, e la pratica fotografica, per Angelini e Praxolu. Si è scelto di insistere su queste due direzioni attitudinali, perché la prima sta acquisendo una nuova centralità nel campo delle arti visive e la seconda ha subito, recentemente, trasformazioni molto significative, entrando entrambe a pieno titolo all’interno del perimetro dell’attualità artistica. Infatti, si noti come gli artisti, perseguendo strade contigue, si muovano su percorsi dissimili, impiegando dispositivi altrettanto antitetici. Se Barbieri presenta una traduzione analitica del dato naturale, suscettibile all’influenza delle scienze e sviluppata ricorrendo all’impersonalità di soluzioni derivanti dalla sofisticazione tecnica, Passaniti, di contro, ne offre una parafrasi emotivamente permeabile, basata sulla proprietà delle materie prime usate di essere sensibili a indirizzi di senso trascendenti. In maniera uguale e opposta, Angelini e Praxolu, condividendo il medium, mostrano come uno stesso strumento realizzativo, nella fattispecie la fotografia, costituisca il bacino di filiazioni estetiche diversificate. Pertanto, mentre il primo valorizza la calibrazione della scena e l’equilibrio compositivo, arrivando a una resa statica e monolitica dell’immagine, il secondo, al contrario, stravolgendo volumi, colori e soggetti, ne delinea un’interpretazione dinamica e deco-struisce la struttura narrativa fino all’inintelligibilità dell’aneddoto».
Cosa, secondo te, caratterizza il tuo approccio curatoriale?
«Intendo la curatela come un’attività principalmente intellettuale che, in un secondo momento, si riversa sul piano pratico, attraverso l’allestimento, la selezione delle opere, la scrittura e il confronto con lo spazio. La vivo come un supplemento della critica militante, dove la restituzione coerente del ragionamento alla base del progetto espositivo, deve funzionare da perno su cui misurare tutto il resto. Forse, dunque, volendo registrare una caratteristica prevalente, è il ruolo dominante rivestito dall’esercizio critico, tale da giustificare qualsivoglia risultato d’allestimento o di scelta delle opere».
Da cosa parti per concepire una mostra? Ci sono delle letture o delle chiavi di supporto nella tua ricerca?
«Quello che in me fa scattare il pensiero di una mostra, sono il confronto solitario con le opere e il dialogo con l’artista. Devono riuscire nel creare in me un nuovo punto di vista. Personalmente, quindi, attribuisco un compito prioritario ai lavori e alla loro natura estetica, sempre nel ricercato tentativo di raccordare il loro respiro con quello dello spazio. Tuttavia, quando autentiche e autonome, sono le opere a definire e plasmare lo spazio; mai l’inverso. Un progetto riuscito, infatti, è il punto d’equilibrio tra questi contrappesi e le loro reciproche influenze, sublimato tramite il testo. Per la medesima ragione, è qualcosa di fragilissimo e che, nonostante l’applicazione coerente di una visione e di una metodologia, si ottiene quasi sempre per imprevisto. Logicamente, le basi disciplinari a cui faccio riferimento, mutano in base al progetto da affrontare ma, generalmente, provengono più spesso dall’universo della filosofia che quello della critica d’arte strettamente intesa».