Gonzalo Borondo. Spazio. Paesaggi. Esperienze

Roma

Gonzalo Borondo lavora nello spazio e con lo spazio, così spesso crea opere in spazi aperti, in spazi pubblici, come se l’artista volesse farli parlare sia attraverso le immagini, mute, sia attraverso le sensazioni che suscitano, sia attraverso i suoni e i rumori che hanno la capacità di attivare qualcosa in chi le osserva. È capitato anche a me. I lavori di Borondo sono un’esperienza, un’esperienza da vivere, per entrare in spazi – fisici e mentali – nuovi, per visitare spazi fuori dai classici contesti, per visitare spazi che altrimenti non vedremmo. Ma non solo: le sue opere ci permettono di entrare anche nella storia dello spazio. Le sue sono opere che rianimano. Rianimano gli spazi. Rianimano chi le visita. Una o più esperienze. 

Ho avuto il piacere di conoscere il tuo lavoro grazie ai racconti di una mia cara amica, Marta Veltri, un po’ di anni fa. Poi, nel 2017, ho visto Aria, l’installazione che hai realizzato a Catanzaro per Altrove Festival, poi ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo e, qualche giorno dopo, ho visitato il tuo studio, uno studio pieno di lavori: alcuni in progress, tavole diverse piene di pittura, vetri, lastre, tele. E tanti, tanti libri. Artisti del passato. Pittori. Per conoscere la ricerca di un artista, per avvicinarsi a quello che ha in testa, perché fa quello che fa, incontrarlo è fondamentale. Incontrarti lo è stato assolutamente. Anche se le tue opere sono molto, molto potenti anche senza il tuo racconto. Questo sì. Uno tra gli aspetti più interessanti della tua ricerca è però, ora posso dirlo, la genesi: ciò che esiste prima che il lavoro nasca. Il processo. E, nelle tue opere, molto dipende dallo spazio. Uno spazio che ti piace. Uno spazio con cui vuoi entrare in contatto. Uno spazio che trasformi. I tuoi lavori sono lavori che entrano dentro. Sono esperienze. Stimolano la percezione. Muovono. Così, ogni volta, offri un nuovo racconto al posto in cui e per cui nascono e, poi, a chi lo visita, spesso, per la prima volta. I tuoi sono spazi, spesso, invisibili ai più. Ma tutti spazi dal carattere forte. Spazi che hanno avuto un passato denso di storia, di storie. Spazi in cui tu ti immergi totalmente, ed è per questo che i tuoi progetti sono lenti, dedicati, composti da più parti, da tanti elementi, da memorie recuperate. Ogni luogo ci parla se riusciamo a capire come farlo parlare e i tuoi interventi sono come “esplorazioni”, mi piace chiamarli così. Un’esigenza la tua: fai rivivere qualcosa di lontano, dimenticato, sopito. Ogni cosa ci fornisce qualcosa. Ogni cosa può parlare.

La verita è che mi piace molto l’idea di ”mettere in luce” questi apparenti ”non luoghi” con cui invece spesso condividiamo la nostra routine, e che fanno parte del paesaggio che ci circonda e, quindi, inevitabilmente, di noi stessi. Mi piace anche questa parola, ”esplorazioni”; la verità è che gran parte del lavoro nasce da lì, dalla volontà di ascoltare, di intendere meglio un luogo per poterci parlare, per aprire un dialogo, per poi finalmente ridare la tua parola a quel luogo e farlo parlare con gli spettatori. Di solito spendo un bel po’ di tempo in questo processo, osservando, ma da un punto di vista più emotivo che altro. Faccio sempre uno studio, una ricerca sulla storia del posto e del territorio che lo accoglie, e poi sento che tutto questo lascia degli strati, degli strati nella parte interiore più legata alle sensazioni, quella che comanda le mie scelte formali: è lo spazio che decide e, anzi, spesso sono anche i materiali (il più spesso riciclati e trovati in loco) a scegliere cosa accadrà all’interno dello spazio. In qualche modo è una sorta di operazione, una sorta di operazione chirurgica per le corde vocali di spazi che hanno perso la voce. Rimettere in vita degli organismi apparentemente morti e che, dopo questa rinascita, cambiano aspetto ma mantengono l’anima. Tanti di questi lavori mi fanno capire come non sentiamo tante delle cose che ci circondano e quanto sia fondamentale aprire la visione al luogo in cui viviamo, in cui transitiamo e al quale apparteniamo: aprirsi a quello che è al di fuori di noi.

Spazi. Grandi spazi. Spazi pubblici. Spazi che ad un certo punto cambiano aspetto, per quanto tutti i tuoi lavori tendono sempre ad inserirsi negli spazi con delicatezza, innestandosi, senza stravolgere. La tua è un’operazione, sì, di ”inserimento in”. Entri dentro lo spazio, lo trasformi, ma rimani nello spazio. Lo rispetti senza scombinarlo e lo rendi sacro. Perché un’altra componente nelle tue opere è il ”sacro”. Come se ogni spazio in cui lavori diventasse per un po’ di tempo in uno spazio sacro, uno spazio da venerare, uno spazio in cui fermarsi, ascoltare, capire. Uno spazio da conoscere. Penso a Merci, il tuo progetto a Bordeaux dell’anno scorso. Pittura, scultura, video, suoni: tutto per ricreare qualcosa da contemplare. Classico e contemporaneo. Sembra un tempio dal passato ma ha molto del presente: diversi media e giochi prospettici. In Merci, come in tutti i tuoi lavori, è impossibile riuscire ad avere una lettura unica per l’intero nuovo scenario. Ma tutto ha un equilibrio. Tutto è nel suo ambiente.

Ho sempre pensato che nelle operazioni artistiche con lo spazio esistono diverse opzioni; annullare/ignorare lo spazio, imporsi per contrasto o aprire un dialogo, altrimenti si rischia che lo spazio si mangia l’opera e la fa sparire. É più o meno quello che ci accade con le persone. Io provo a conversare il più possibile….., almeno con gli spazi ogni tanto ci riesco. ”Sacro” arriva con/da ”sacrificio” (dal latino ”sacrum fieri”) ma ”sacrificio” non come lo intendiamo oggi, spesso con un senso di privazione o di barbarie, ma come un processo di elevazione di qualcosa, di trasformazione in qualcosa di oltre; altrove. Penso anche che questo sia una dei poteri più grandi dell’arte, questa capacità magica di transformare la materia/spazio in qualcosa da cui sentire. Dare vita. In Merci, come in tanti altri miei lavori degli ultimi anni, provo a fare questo, creare un scenario, e a volte sento che è come creare una storia ma senza personaggi; sono i visitatori a decidere come viverla e fino a dove farne parte. Mi piace questa tua idea di ”esperienza”, penso sia il massimo che un lavoro artistico possa donare, un’esperienza, un qualcosa che ci rimane nell’ inconscio, nella memoria e che, in alcuni casi, può modificare la nostra visione del presente, a creare un precedente, o anche soltanto farci sentire qualcosa all’interno del presente, qualcosa a cui spesso non siamo abituati. Per avere un’unica lettura servirebbe un unico messaggio unidirezionale, e questo va contro la mia idea di dialogo, diciamo che il monologo artistico non mi appartiene molto. Penso che sia bello il linguaggio dell’ ”indicibile”, di quelle cose che uno sente ma non sa spiegare, che esistono e che i miei lavori cercano di stimolare, ma che spesso non sanno come essere spiegate con il linguaggio (nel mio caso abbastanza ordinario) delle parole. 

Passi molto tempo nelle città (paesi, comunità), negli spazi in cui ti trasferisci per lavorare ai tuoi progetti. Di solito diversi mesi. E, una volta lì, immagino, inizi a sentire, inizi a capire il posto. Incontri persone. Magari cambi, giorno dopo giorno, idee, materiali, immagini, mezzi da utilizzare. Perché forse un incontro o un oggetto dello spazio ti hanno fatto vedere tutto da un altro punto di vista. Così, reinterpreti di nuovo per creare quella che per te è la vera specificità di quello spazio. I tuoi lavori sono lavori identitari. Memorie contemporanee. Qual è stato l’incontro che ti ha fatto cambiare (se c’è mai stato), quella cosa trovata, quel materiale che hai pensato di usare per la prima volta e che hanno cambiato i tuoi piani mentre erano in corso? Quanto ti lasci andare? Quanto ti tuffi un po’ nell’ignoto? Sei il primo a fare esperienza delle tue opere appena finite…

Allora, andiamo per punti. Penso che non riesco a fare proprio un’esperienza delle mie opere, visto che il lavoro non mi è totalmente ignoto, al contrario, è troppo studiato e, per sentire, a volte serve un po’ di ignoranza, di innocenza e di sorpresa. Soltanto con Merci mi è capitato di sentire qualcosa all’interno del ”tempio”, una volta finiti i lavori, ma è abbastanza raro che mi accada. Mi interessa creare questi spazi, ambienti, atmosfere, per poi far fare il gioco al resto, di solito mi allontano subito dal lavoro creato e faccio anche fatica a riparlarne dopo un po’; e come se volessi levarlo dalla mia testa di modo che ci sia spazio mentale libero per i progetti successivi, quelli che verrano. Penso che la mia esperienza sia quella di costruirli, e penso mi basti. I figli diventano subito indipendenti. E questi sono sempre processi tutti molto intensi e complicati per me. Alla fine, fare il mio lavoro, è come dirigere un’orchestra dove, oltre a tutte le persone, gli imprevisti e i limiti dello spazio, esiste anche il problema del tempo (per me l’origine di tutti i conflitti della nostra esistenza, ma di Lui ne parliamo un’altra volta). Anche Lui fa il suo lavoro all’interno dell’opera, spesso ne è anche protagonista. Comunque, io personalmente sono di quelli che ogni volta che non sa come fare qualcosa si butta per provare, almeno nel terreno artistico/plastico. Poco fa sentivo che si è scoperto che il cervello, quando uno fa le cose che sa fare, perde di elasticità, si irrigidisce e si contrae. Non so quanto sia vero ma quando l’ho sentito almeno ho pensato che stavo sulla strada giusta: è duro mettersi alla prova in ogni lavoro e, a volte, uno pensa sì a ripetersi ma per ora questo non fa parte della mia natura. Il cambiamento è trasformazione, e quindi vita, e quindi viene accettato (scusa se sembra un po’ buddhista sta roba), a me adesso va bene così. Nelle opere di arte pubblica questo cambiamento arriva spesso per questioni di permessi, sicurezza ,etc…. ma quando uno esce sul palco, esce sulla scena, tocca risolvere la cosa, bisogna capire come fare senza tradire il messaggio che vuole portare, rimanendo ”dentro al messaggio”, mantenendo il sentimento iniziale che l’opera vuole comunicare. Sì, uno deve adattarsi a certi condizionamenti ma senza tradire mai la natura di quello che vuole esprimere; scendere a compromessi ma fino ad un certo punto: il contenuto, l’anima, devono preservarsi. 

A volte le tue opere sono permanenti, a volte no. A volte le riporti in studio e lì iniziano una nuova vita. E se ne stanno in silenzio, e rimangono ferme con quell’aurea sacra di cui parlavo prima. Ne hai mai modificata qualcuna? La tua è una ricerca ricca di nuove sperimentazioni, grazie a queste molti dei tuoi lavori sono sorprendenti per i tanti effetti illusivi. Dedichi molto tempo alla tecnica, me l’hai detto tu, e la tua è una dedizione alla materia. La pittura è solo un inizio, è un punto di partenza, poi ti sposti con espedienti, molte volte con la voglia di animare il singolo pezzo, o l’installazione, per dargli vita. Per creare ritmo. Usi la luce, le gelatine, le trasparenze, i vetri. Il video e il suono. Il visibile e l’invisibile.

Modificare un’opera, uhm, è complicato; per me quando un’opera è nata per un’installazione, cioè per uno spazio, se poi viene spostata in un altro, già è stata modificata, anzi, raramente permetto che si allontanino dal luogo per cui erano nate; mi sembra che senza un pezzo si smembri tutto il puzzle. Ad esempio, in progetti come Merci, anche se c’erano opere come dipinti su tela o sculture su plexiglas, ho deciso di non metterne in vendita nessuna; per me quelle opere fuori dal loro contesto non avevano più senso. In più, anche il fattore commerciale spesso rovina l’esperienza aggiungendo ingredienti razionali inutili, come nel caso di Merci. In altri casi, ho concepito anche delle installazioni dove i visitatori si potevano portare un pezzo a casa, ma in questi l’idea era nata così dall’inizio. La verità è che faccio fatica a riprendere opere non riuscite, piuttosto le distruggo o le utilizzo come spazio di ricerca, e finora non sono stato bravo a riciclare in quel senso. Poi, modificare in corso d’opera è qualcosa che fa parte dell’opera stessa, spesso faccio impazzire i miei collaboratori con cambiamenti fino all’ultimo secondo, ma penso sia naturale quando uno non vuole che migliorare quello sta facendo, e c’è sempre la possibilità di farlo, quindi, perché non provarci fino all’ultimo? Il caso di Insurrecta, il mio ultimo progetto, è stato molto particolare: a metà del progetto, e con praticamente tutta la mostra definita, è arrivata la pandemia, e con lei la consapevolezza che le immagini che stava proponendo, e che sarebbero andate su tutti i cartelloni pubblicitari della città, erano molto fuori tono rispetto al momento storico che l’intero pianeta stava vivendo e, visto che sarebbe stata probabilmente la prima mostra che si poteva visitare dopo il lockdown – grazie al fatto che le opere erano esposte a cielo aperto – mi sono dovuto rivedere su tutta la mostra, eliminando sia i soggetti, che il tono, appunto, con cui volevo parlare ai cittadini, ammorbidendo il senso ma senza perdere il contenuto di fondo, anzi, arricchendolo molto alla fine. 

Insurrecta, ne hai appena parlato, è il tuo ultimo progetto. L’hai inaugurato da pochissimo e sembra un progetto spettacolare (dalle foto che ho visto sembra pazzesco!) e chiuderà il prossimo anno, ad aprile. Un progetto per Segovia, per raccontare parte della storia cruenta che la città ha attraversato in passato, un progetto che nasce in occasione dell’anniversario dell’insurrezione della comunità, i comunores (1520-1522), per rivendicare terre e libertà. Con Insurrecta ritorni nei tuoi luoghi. Sei nato a Valladolid, quindi credo che sia stato, e ancora adesso lo è, un progetto che, in qualche modo, senti più degli altri. Tante opere su cartellone (billboard) sparse lungo un percorso. Insurrecta è un grande libro urbano, un libro composto da tavole diverse: tutte forti. Un paesaggio nel paesaggio. Un meta-paesaggio. Insurrecta vuole approfondire l’idea di rivolta. Dà nuove immagini alla rivolta, costruisce un nuovo alfabeto e ci restituisce un nuovo punto di vista della storia di quel posto: dà nuova voce a quella ”rivolta”. Ce la fa vedere diversamente. Sì, ci fa vedere questo spaccato di storia come se a parlare fosse l’idea di conflitto. Vediamo uomini, paesaggi, animali, da soli, insieme. Vediamo e immaginiamo sentimenti, impulsi. Vediamo e sentiamo odori. Vediamo e immaginiamo suoni, rumori. Spari e sangue. Le tue opere ci riportano indietro a Goya, come tu stesso hai affermato – alla serie di incisioni ”Los caprichos” (1790 ca.) e ”Los desastres” (1810-20 ca.) – ma anche a Picasso, alla più vicina Guernica (1937), mi è venuta in mente subito guardando la composizione piena di figure umane. Tutto ci racconta della rivolta: quello che succedeva ovunque a Segovia mentre questa era in atto. Un quadro completo di quel momento. Il potere e chi lo combatte, da una parte; il paesaggio e gli animali, dall’altra. Insurrecta crea un dialogo aperto: parti separate oggi rivivono insieme, pezzi di una grande metafora sulla lotta. Insurrecta è un atto politico: una riappropriazione di spazi. Ma anche un’opera critica sull’origine dei conflitti più in generale. Un lavoro che vive e muta con il tempo, stai continuando a lavorarci…

Il progetto Insurrecta è stato qualcosa di molto difficile per me, dopo quasi 10 anni, senza agire mai come artista nella mia terra, sentivo un grande dovere dentro, visto che Segovia per me è una città tanto cara e che, anche il tema, apparteneva ad alcune ”leggende” che sentivo durante l’infanzia. Affrontare un tema del genere, senza diventare parziale o didascalico, è stato molto impegnativo: una bellissima ricerca storica. Ho appena finito di realizzare tutta la parte a cui avevo pensato, abbiamo organizzato dei tour in bicicletta e ho definito, per ora, quasi tutti i punti per le affissioni, però penso che per me la cosa più gratificante di questo progetto è che, a differenza dei comuneros (i quali hanno perso la lotta con la quale volevano riappropriarsi del loro territorio) Insurrecta è riuscita a convincere il Comune ad evitare, da ora in poi, l’uso dei cartelloni per un uso pubblicitario (cioè, di essere ”spazzatura visiva” per chi si può permettere di imporre il suo prodotto al paesaggio) per convertirli in modo permanente in spazi per le arti visive realizzando una serie di Biennali (per cui curerò personalmente i contenuti), un percorso culturale che si riappropria di questi supporti ridandoli come bene comune dei cittadini. È una piccola vittoria sociale per chi ci tiene al paesaggio e a come LUI condiziona la nostra quotidianità…. e quindi sì, mi sa che mi toccherà continuare a lavorare.

 Info: https://www.facebook.com/borondoofficial – https://www.instagram.com/gonzaloborondo/?hl=it