Storie esotiche. Storie lontane

Roma

Se guardiamo l’opera di Marta Roberti, quasi sempre, vediamo figure, figure in spazi, o solo spazi. Ma sempre figure e/o spazi altri. Come se arrivassero da altri continenti. Da altri continenti, direi, forse mai esistiti. Esseri umani, esseri animali. Esseri. Natura. Passato e futuro. Tutto senza una rappresentazione precisa, standard, giusta. E, in particolare in questo ultimo periodo, soprattutto grazie ad alcune tecniche. Carte su carte sovrapposte. E tratti particolari. Colori forti. Rossi. Verdi. Blu. Grandi formati. Per raccontare un mondo fatto di storie, di tante storie, minori o poco raccontate, per farle uscire fuori con forza spesso per la prima volta. Storia di identità. Di identità multiple, flessibili, come quelle di tutti noi.

Le tue storie ne hanno dietro molte. Molte legate a storie di spirito. Quando ci siamo incontrate mi hai raccontato del tuo viaggio, anche mistico, in Asia. Un tuffo in una cultura lontana da quella occidentale, per spirito appunto, e profondità. Come te l’aspettavi? Come è stato? Quello che di più elevato hai colto una volta lì? Cambiamo molto dopo aver visitato, e aver vissuto, posti carichi di nuova energia e che vivono insieme all’ ”energia” da sempre. Luoghi trascendentali. Metafisici. Nuovi punti di vista e grandi temi: le divinità, la nascita dell’universo, l’universo in sé, l’uomo come soggetto attivo. Il corpo e l’anima. Argomenti alti, argomenti bassi e nuovi significati. Se penso all’Asia, come all’India, o al sud Africa, o al sud America mi vengono in mente tutte queste cose. Altro che illuminismo! (Gioco, sai?). Ma, a dirla tutta, nel tuo lavoro c’è sempre stato tutto questo, no? La tua è un’attenzione, passami il termine, quasi religiosa, per le storie, per le tecniche, per le cromie, per le dimensioni, per le installazioni. Un’azione totalmente dedicata. Un’azione strutturata e ricca di valori, di ideali. Di sentimenti malinconici anche. Perché le tue opere sono velate di malinconia. Parlano di impotenza, di fragilità e di debolezza. Come se le figure o gli spazi che ci fai vedere cercassero nell’opera stessa un rifugio o volessero uscire dalla stessa per cercarne uno. I tuoi lavori sono come entità: fantasie.

Ho vissuto in Asia tra Taiwan, Cina e Vietnam. Mi interessano le mitologie orientali, la filosofia taoista oltre che la sapienza occidentale cosiddetta esoterica o magica: mi piace ritrovare figure comuni che mostrano quanto queste culture siano sempre transitate in quell’area orientale del Mediterraneo che da sempre ha unito e non separato l’Europa da tutto ciò che si trovava ad est. Prima di partire per l’Asia ho insegnato diversi anni filosofia nelle scuole superiori e mi sono spesso trovata in imbarazzo quando, presentando la nascita della disciplina, ogni manuale sottolineava che essa è specificatamente occidentale; oppure quando si dedicava solo un paragrafo al pensiero magico nel periodo rinascimentale, per aprire invece l’intero volume alla nascita del pensiero scientifico. Sia la filosofia orientale che il pensiero magico sono stati gli sconfitti della cultura dominante e globale. Con il principio di non contraddizione siamo giunti al mondo contemporaneo, al capitalismo cognitivo e alla fede nella scienza, che non manca di cercare un compensamento in una spiritualità diffusa che riempie le maglie della rete in corsi e tutorial che promettono l’illuminazione o mistiche esperienze di aperture dei chakra. Vivere in Asia è stato come scegliere di entrare in quel rimosso dai libri di filosofia e dalle nostre coscienze, a cui diamo il nome di ”esotico”. Per entrare in quel rimosso ho dovuto davvero decostruirmi. Nei paesi in cui ho vissuto la tecnologia e il consumismo sembrano ancora più esasperati che nel mondo occidentale ma in realtà tra le persone più anziane, oppure sparsi come frammenti, è possibile ancora rintracciare un mondo altro: nei gesti nelle posture nelle parole nelle forme di vita di alcuni. Per passare al mio lavoro credo che questi miei interessi vi trapassino anche senza un progetto o una volontarietà.

Quanto produci e come? Nel tuo studio ci sono davvero tanti, tanti lavori. Alcuni chiusi in cartelline. Ma ne hai davvero tanti! Così, uscendo, mi sono chiesta qual è il tuo rapporto con la produzione. Se produci tutto in un momento o se fai delle pause. E, ti è capitato di creare qualcosa senza nessun motivo, solo perché ti andava di farlo? Viaggi spesso – e attraverso residenze anche – e so bene che, durante questi programmi, generalmente si produce per far vedere un risultato, lo sviluppo di una ricerca, etc. quando la residenza sta per concludersi. Ma l’attività produttiva di un artista ha caratteristiche molto diverse e variano da persona a persona, da momento a momento, per questo te lo chiedo. C’è chi parla sempre. Chi parla molto in un momento, chi parla poco generalmente e così via. Tu? Tu come parli? E quanto il tuo fare artistico è vicino al tuo modo di essere. A Marta. Sto parlando di atteggiamento e produzione. Come li vivi? Perché, nei tuoi lavori, racconti anche un po’ di te, i tuoi lavori fanno sentire “i tuoi colori”. Sono opere dal tuo animo, dal tuo modo di vedere e sentire.

Parlo poco e mi dispiace, vorrei essere capace di parlare di più. Però mi piace scrivere e quindi ora approfitto per dire ciò che non sono in grado di dire in presenza. Produco molto è vero, ho un’attitudine piuttosto compulsiva. Il tipo di disegno che più prediligo ultimamente consiste in un ricalco minuzioso di fotografie su carte carbone. Lavoro su piccoli formati che poi unisco per generare disegni talvolta enormi. Ogni singolo disegno è composto da una miriade di piccoli disegni e difficilmente considero un disegno concluso con un suo senso o valore proprio; piuttosto ogni disegno è un’ immagine in relazione ad altre che ho già creato o ancora da realizzare, in vista di un’ installazione dove entrano in comunicazione creando un ambiente immersivo. Tendo a disegnare per moduli e un disegno è concluso solo quando è uscito dal mio studio perché è entrato nella casa di un altro.  Fino a quando si trova nella mia area di azione è passibile di smontamento o ri-assemblamento con altri. Non so dove il filosofo Giorgio Agamben abbia scritto o detto questa frase ma me l’ero trascritta: ”ogni opera di poesia o di pensiero non può essere conclusa, ma solo abbandonata…”(ed eventualmente continuata da altri).

Metti mai in discussione quello che fai? Ti metti mai in discussione? Immagino che la riposta sia affermativa per entrambe le domande, e mi viene facile pensarlo osservando il tuo lavoro. Nessuno di noi crede ormai più a principi assoluti. Tutto è sempre meno fermo, stabile, duraturo. L’argomento è un problema comune, universalmente diffuso. Siamo figli di un’industria di sentimenti nuovi e, anche se proviamo ad allontanarci, ci viviamo comunque dentro e sarebbe falso dire il contrario. Come se potessimo guardarci e dire a noi stessi con serenità: ”Ok, va tutto bene, hai fatto tutto bene. Stai bene”. Per fortuna, però, in questa ”industria moderna” non perdiamo stimoli. Quello no di sicuro! Siamo a contatto con una così grande varietà di modelli, di pensieri che sarebbe impossibile perderli! Non dico che tutto questo, che tutta questa ”schizofrenia” sia bella. No. Ma sicuro ci prova e ci fa provare tanto. C’è chi affronta il mondo con profondità, c’è chi si fa mangiare dal mondo. Ne parlavo qualche sera fa con un amico parlando del rapporto con Roma. Già, come è Roma per te? Prima dicevo di viaggi e di spazi che cambiano. Roma è una città tosta. Ti divora se non sai come vivere con lei. E credo che anche per te questa bellissima e dura metropoli sia un’esperienza. Io vivo con lei una sorta di processo di resistenza, la manipolo, mi manipola. Ma quello che conta per me è un atteggiamento di tipo mentale reattivo. Solo questo ci fa vivere la vita, i luoghi e i sentimenti pienamente. Ci fa sentire vivi.

Quello che scrivevo prima a proposito dell’assemblaggio dei disegni credo abbia a che vedere con il fatto di non essere mai soddisfatta. Fare arte per me è una forma di vita in cui ho diritto a fallire e nella quale sono mossa da uno strano presentimento di felicità, che talvolta arriva quando l’idea che avevo in mente sembra concretizzarsi nel lavoro o quando ciò che ho realizzato sembra aprirmi varchi di ricerca verso possibilità che non avevo calcolato. Per quanto riguarda la mia esperienza di Roma, Roma è la città in cui ho trovato uno studio che è anche la casa in cui vivo e che mi permette di vivere in una situazione un po’ selvatica, dalla quale però posso facilmente uscire per immergermi nella sua meravigliosa stratificazione di storia e bellezza . Vorrei avere modo di lavorare di più in questa città ma forse non mi sono mai impegnata abbastanza pensando più a come allontanarmi che a radicarmi.

What hides still invisible things (2018): come è nata quest’opera? Un’opera scura carica di spirito che fa parte di progetto che include una serie di disegni incisi. Che raffigurano? Che raffigurano che cosa? Forse tutto il possibile? O, potrebbe anche essere un omaggio all’impossibile. Dipende da chi la guarda. Penso sia aperta ai diversi sguardi. Ma tu? Tu come la vedi? Per me racconta di rotture. Di qualcosa che si è spezzato, di una storia passata che vogliamo rievocare. Di qualcosa che vogliamo ricucire, che vogliamo ritorni, che vogliamo viva ancora. Quello che vediamo esce fuori con forza, con graffi. Solcando il nero. Solcando il nero della carta. Tutto quello che vediamo esce fuori urgente. Emerge. Si riaffaccia al mondo. Ritorna. Torna a vivere. Tutte forme che, una volta colpite dalla luce, si illuminano, esaltate ancora di più. Non è un caso che citi Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze: se immaginiamo qualcosa che si distingua, tuttavia ciò che si distingue non si distingue da ciò da cui si distingue (parafraso Deleuze). Il lampo, per esempio, si distingue dal cielo nero ma se lo trascina anche dietro. Cosa provi a far emergere e cosa ti porti dietro? Qual è quella parte di cielo che si muove con te quando provi a farlo?

What hides still invisible things consiste in una serie di disegni incisi su carta copiativa di grafite nera in cui riproduco dei roveti. Il primo di questa serie era un rovo che avevo fotografato vicino al mio studio a Roma. Volevo ritrarre Roma nel suo aspetto più selvatico. È un disegno enorme da collocare lontano dalle pareti in modo che possa assorbire la luce che lo rende visibile. La carta copiativa che utilizzo è nera perché ricoperta di grafite. Gratto via la grafite per ottenere sfumature di bianco e grigio. Quella carta nera è come se fosse il nulla, l’informe, il vuoto, l’origine, una sorte di notte primordiale. A un certo punto dei segni la scalfiscono e delle forme emergono. Foreste, radici, rami contorti labirinti inestricabili. Quel nero da cui le forme emergono è come se fosse una sorgente preindividuale, il fondo da cui procede ogni individuazione. Non so per quale motivo mi affascini questo luogo impersonale e informe, forse perché è ciò che mi fa sentire collegata alla terra e al resto dell’esistente e che mi dice che la vita umana ha un senso non umano e che ogni ”io” non è che una piccola secrezione di quella materia neutra e primordiale. Gilles Deleuze diceva: ”C’è un acefalo nel pensiero, come un amnesico nella memoria, un afasico nel linguaggio e un agnosico nella sensibilità”. Credo che tutto ciò abbia a che vedere con l’origine, con un passato che non c’è più e che forse non è mai esistito ma che insiste in ognuno di noi e che mi chiede di portarlo a galla. Alla serie di disegni di rovi ora sta seguendo una di mangrovie, che percepisco come una sorta di rizoma all’aria aperta; queste piante crescono come foreste di labirinti inestricabili e sono importantissime per quanto riguarda il cambiamento climatico. Le mangrovie sono le piante che in assoluto assorbono più anidride carbonica rilasciando più ossigeno di qualsiasi altra pianta del pianeta. Siccome nascono sulle coste dove l’acqua dolce e quella salata si mescolano proteggono ambiente e popolazione dagli tsunami.

Mi piace molto Water frames (2017), un tuo film: una composizione di fotografie, in realtà, migliaia per essere più precisi, raggruppate in tante brevi clip che raccontano una storia ambientata sulle montagne di Yangminshan. Un film che parla di laghi, stagni, fiumi, cascate e sorgenti termali: Taiwan vista da te. Una pellicola che ci fa vedere tante forme di acqua: pioggia, tifoni, fiumi, laghi, nebbia e sorgenti calde. Tra il documentaristico e il poetico, perché tutto sembra come sganciato dal reale per la sua velatura romantica. Hai vissuto in quei luoghi per diverso tempo, hai percorso le strade che vediamo e le hai fatte tue. Tutto quello che ci fai vedere è quello che vedevano i tuoi occhi giorno dopo giorno lì: nel film ci sei tu (anche se non ti vedi), quello che vedevi e quello che sentivi. Qualcosa di fisico e mentale insieme. Una pellicola spontanea che scorre veloce in una sequenza che spesso ripete stessi scorci, stesse angolature. Tutto è fluido, filtrato, miscellato. Come se tutto fosse d’acqua. Water frames è un dramma sul paesaggio. E, anche in quest’opera, io vedo una rottura. Anche qui si è rotto qualcosa. Un equilibrio che non c’è più, ecco cosa vedo. Vedo questo e un’attesa, come se stesse per accadere qualcosa. Come ti senti in questo periodo? Stai aspettando che succeda qualcosa? E qual è un’immagine drammatica di paesaggio che hai in testa che ti rappresenta meglio? E dentro di te c’è una spinta verso un: ”voglio cambiare, devo cambiare, aspetto che…, mi aspetto che…”?

Lo spazio viene normalmente percepito come un contenitore e gli occhi come strumenti di una coscienza che vede oggetti posti di fronte a noi, diversi e separati da noi. Di recente ho letto un libro: L’occhio e lo spirito del filosofo Maurice Merleau Ponty in cui egli considera questo atteggiamento qualcosa che può essere superato considerando lo spazio un luogo di co-appartenenza di soggetti diversi e in cui l’atto di visione sarebbe un’operazione strutturale dell’Essere stesso nella quale il mondo vede se stesso attraverso di noi. Con Water Frames ho provato a sperimentare questa radicale proposta: non essere un centro organizzatore ma lasciarmi attraversare dal paesaggio. Ho scattato quasi ogni giorno in modalità scatto continuo. Partivo generalmente da una classica buona inquadratura in cui gli elementi erano in equilibrio, subito dopo continuando a scattare, muovevo la macchina seguendo il mio occhio che si guardava intorno, rompendo quindi l’equilibrio dell’inquadratura iniziale per cercare qualcosa che forse impercettibilmente sarebbe accaduto. Ho montato tutte le clip scattate in giorni diversi come se fossero state un collage, il cui filo conduttore era l’elemento acqua nella forma liquida o di vapore da cui ero avvolta quotidianamente su quelle montagne meravigliose del Parco di Yangminshan a ridosso della città di Taipei.

 

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