Il lavoro di Stefania Migliorati è un lavoro per lo spazio pubblico, che si esprime in uno spazio pubblico. Un lavoro che racconta contesti socio-politici fatti di relazioni tra persone (tra le stesse e lo spazio), idee, modi di vivere e modi di approcciare la vita e i suoi luoghi. Quella di Stefania è una pratica che indaga anche l’interazione tra pubblico e privato, il primo lo viviamo in un modo anche un po’ artefatto ed insieme ad altri; il secondo, lo viviamo in maniera più intima e anche da soli. E possiamo definire la ricerca dell’artista come un drama visto dalla parte di chi recita, come se la scena fosse la vita che chiamiamo ”pubblica” e il privato fosse il dietro le quinte. Scultura, installazione e fotografia: così Stefania compone le sue piecès…
Parlami di quando eri bambina. Sei da poco diventata mamma e ho riguardato il tuo lavoro da un altro punto di vista. Cosa ti piaceva fare da piccola? C’era uno spazio dove ti piaceva andare? Avevi un posto che consideravi la tua ”isola felice”? Io ne avevo uno da piccolissima, uno spazio che in realtà era una specie di spiaggetta, un’area con la sabbia (terra), all’interno del giardino del mio asilo, dove giocavo e mi sporcavo insieme agli altri bambini. Mi piacerebbe andarci anche adesso. E perché ti faccio questa domanda? Guardando il tuo lavoro vedo molto dell’infanzia e mi riaffiora la mia; mi fa tornare indietro con tenerezza. E, forse, in questa fase della tua vita, anche tu hai ripensato a quello che hai fatto fino ad ora con un altro sguardo. Mi è sembrato di capire questo quando abbiamo chiacchierato di recente. In questi mesi ti sei concessa un po’ di te. Hai aperto spazi nuovi e spazi diversi, anche privati. Ecco, hai avuto, o c’è, uno spazio privato, uno spazio dentro casa tua (meglio), tutto per te? Se c’era e come era da bambina. Se c’è e come è ora. Come la tua ricerca, tra spazi pubblici e spazi privati, fammi immaginare come eri e come sei quando ripercorri i tuoi spazi. Fallo con innocenza: please lose your keys…
Essere madre certamente mi spinge a riconsiderare una gran parte del mio passato e nel ripercorrerlo posso dirti che la prima parte della mia infanzia è stato un tempo molto felice, di grandi giochi e profonde relazioni. C’erano molti posti che amavo tra cui il Monte Polenta a due passi da casa dove c’era un dente di roccia alto circa 5 metri dove arrampicarsi e costruire postazioni vedetta, case, salotti. Il Monte Polenta porta con sé tante storie in paese. Si racconta infatti che ”il Pirata” da ragazzo, con l’aiuto del fratello, abbia infilato (ahimè) agli zoccoli del suo asino un paio di sci e lo abbia fatto scendere dal monte. Vedi, nel posto in cui sono nata ci si raccontava, e credo ancora oggi, e c’erano nomignoli per tutti. Da qui nasce certamente il mio interesse per lo spazio pubblico che associo ad un spazio di espressione personale e collettiva, interazione, narrazione, simbologie, metafore, di caratteri umani, fantasia e ribellione anche se vuoi. È un luogo culturale vibrante e di appartenenza. A nove anni però le cose sono cambiate a causa della malattia improvvisa di mia madre. L’innocenza di cui parli, se intesa come spensieratezza, si è dispersa ed ho imparato a sopravvivere negli spazi che conoscevo e a vivere negli spazi dell’immaginazione. La lettura è stato il luogo dell’evasione. Ne consegue quindi che il mio rapporto con lo spazio privato è un rapporto all’inizio di diffidenza (tutto può cambiare da un momento all’altro) e poi, con la fiducia, di attenzione. Con le parole di Perec: ”vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male”. Chiaro, non sempre ci son riuscita. A volte nemmeno l’ho voluto. Le prime installazioni comunque, I lost my keys, I was going to East while returning to West, in fondo sono questo: delle direzioni per raggiungere un altro posto. Al pubblico spetta solo di non farsi male durante il percorso.
I ”pericoli e i disturbi dell’abitare umano”, come tu stessa hai scritto per descrivere Hotel (2018), una, tra le tue opere, in cui vedo più che in altre la componente dell’innocenza a cui ho appena accennato. Perché il tuo lavoro fa arrivare sempre a qualcosa di specifico e molte volte lo fa senza grosse articolazioni. Fa lavorare il cervello come pensano di fare i giochi per bambini per stimolare in loro un ragionamento attraverso attività pratiche o no. Il mio è un complimento. In una società tartassata. In una società di pericoli e disturbi (di varia natura, e il discorso sarebbe lungo) riportare tutto su un piano semplice mi sembra un’ottima chiave per capire meglio cosa fare, cosa cambiare e come comunicare tra di noi. Portami fino alla tua ”sinantropia rumorosa”. Al fruscio delle foglie, al cinguettio degli uccelli, all’acqua, che ascoltiamo, vediamo, odoriamo quando siamo in campagna; al traffico, alle parole e alle luci quando siamo immersi nelle nostre città.
La mia ricerca sulla sinantropia è una ricerca dell’eccezione perché esistono molti animali selvatici che convivono con l’uomo ma di solito sono legati allo scarto, al rifiuto o alla sporcizia. Pensa ai topi in metropolitana, alle cimici dei materassi oppure a tutti gli altri animali che si avvicinano ai centri abitati in cerca di cibo: volpi, cinghiali, uccelli. Non si tratta generalmente di una scelta di inclusione dell’altro da parte degli uomini. Al contrario c’è un esercizio continuo di contenimento di questi tentativi di avvicinamento. La mia attenzione quindi cade sui momenti in cui questo non succede e l’uomo permette a sé stesso un compromesso con l’animale a discapito di alcuni privilegi, comodità e del desiderio irreprimibile di primeggiare. Hotel racconta questo compromesso. A Noto basterebbe potare i rami dei fichi beniamini che circondano le esedre della basilica e i passeri scomparirebbero dalla piazza permettendo agli abitanti di parlare tra di loro (il rumore del cinguettio è assordante) o di sedersi indisturbati sulle banchine poste sotto gli alberi godendo di una vista spettacolare nel contrasto del blu inteso del cielo siciliano e il giallo chiaro delle architetture barocche. Ma lo si può fare anche dieci metri un po’ più in là. Non è così? E così si fa. Non è un gran problema.
Quando parliamo di ”sinantropia” apriamo diversi mondi: ”nuovi mondi”. Discorsi urgenti, problemi veri e propri: quello che accade a causa dei cambiamenti climatici. Tutto cambia, perché tutto si muove. Ci muoviamo noi, e con noi portiamo costumi e abitudini, poi si muovono anche gli animali migrando, oppure, altre volte, scompaiono alcune specie. Da qui, sia per le varie migrazioni, sia per le scomparse, qualcosa cambia inesorabilmente. Il clima con le sue variazioni è la cartina di tornasole di quello che ho appena affermato. Ci fa vedere come i comportamenti agiscono sulla terra. Ma non solo i nostri e quelli animali. No. Anche le piante, che erroneamente consideriamo come vegetali e non viventi, bene, anche loro, vivono, agiscono e impattano sul suolo. Anche l’artificiale, il non-selvatico – come lo chiami tu – che esiste e insiste abbastanza nei tuoi lavori, sì, anche questo, contribuisce. Tutto ci porta in più direzioni. In All Directions è un tuo progetto del 2014, una tua opera ”aperta”, nel senso che invita alla partecipazione. E mi piace aprire a questo lavoro proprio perché è un lavoro organico, tutt’ora aperto, che racconta delle vita, appunto. Non solo una “camminata relazionale” ma una porta d’ingresso per percorsi personali. Un modo per alimentare la riflessione su alcuni luoghi attraverso una riflessione personale simultanea ad un approccio fisico. Vivere. Abitare. Orientarsi. Perdersi. Segnare. Disegnare. Ambientarsi.
Ho iniziato ad interessarmi alla questione climatica in modo approfondito nel momento in cui ho cominciato a studiare i movimenti migratori degli animali che coinvolgono i luoghi dove gli uomini vivono. Alla base di questi spostamenti ci sono tante ragioni e molte sono naturali. A me interessa però capire quali processi siano causati dall’azione dell’uomo. Fare quindi un discorso politico. Nella serie The garden of the extinct animals ricostruisco su carta un paradiso scomparso della diversità in cui sono disegnati gli animali estinti in un territorio. Così il giardino della Sicilia accoglie leoni, elefanti, ippopotami, cervi, orsi, foche monache e bisonti. Il Kenya una mandria di rinoceronti bianchi settentrionali. L’intenzione è quella di meravigliare attraverso una geografia dell’assenza e dimostrare l’aridità di un processo in corso in cui la diversità si sta perdendo. Se ogni anno scompaiono migliaia di specie animali e vegetali, potremo certamente continuare a sopravvivere ma in compagnia di solo una manciata di altre specie, probabilmente a noi funzionali e magari ricostruite in laboratorio. Mi sembra molto triste. In parla allo stesso modo di adattamento, però circostanziato alle città. La camminata, che si può fare anche da soli scaricando il pdf in Facebook, consiste in una serie di istruzioni che spingono a riflettere su alcuni aspetti significativi del vivere uno spazio, anche nuovo nel caso di migrazione, come ad esempio il principio di fondazione (di una casa, di un villaggio, di una città e via dicendo) o la necessità di nominare i luoghi e in questo modo renderli propri e famigliari.
Il tema della co-abitazione tra esseri umani e esseri animali è un tema forte della tua ricerca, credo il più forte fino ad ora, anche se, dalle nostre ultime conversazioni ho notato che sta emergendo, insistente, anche una nuova spinta, più concentrata sull’uomo e sul suo agire: il suo essere parte attiva nella società contemporanea. Come sei arrivata a questo nuovo passaggio? La tua è una pratica che ora, penso, sia arrivata ad un bivio; da una parte può approfondire gli animali e il lato selvaggio, l’animalesco appunto, dell’essere sul mondo; dall’altra apre ad una strada, meno legata alla ”fisicità”, e più vicina a qualcosa di astratto, come il pensiero. Due vie, due frazioni, che forse si rincongiungeranno più in là nel tempo su una nuova via, per formare un terzo paesaggio. Una volta qui, una volta su questo terzo paesaggio, poi, quali sono le cose, ti chiedo, le specie che, nel tempo, secondo te hai (avremo) perso e quelle che vorresti tornassero, quelle che vorresti ritrovare di nuovo sulla via? Oltre alle perdite, parlami anche delle ”infiltrazioni”, di quelle inaspettate, di quelle che vanno e di quelle che non vanno bene lungo la strada. Di quell’infiltrazione sociale che definisci ”spazio energetico interno/esterno di scambio”.
La coabitazione tra esseri umani e animali che si fondi sul principio di diversità e non di sfruttamento o di addomesticamento sembra quasi impossibile oggigiorno. Ma deve essere proprio così? Hai mai sentito parlare di forest gardening? In sintesi è un tipo di agroforestazione in cui invece di praticare monoculture, si combinano piante di diverso tipo in un ecosistema apparentemente selvatico e simile a quello naturale. Questo tipo di coltivazione favorisce ovviamente anche la diversità della fauna che ci vivrebbe. Alcune città si prestano a questo. Anche in centro. Pensa all’ex aeroporto di Berlino. Tempelhof. Una spianata in pieno centro (quasi). Ci sarebbe spazio per continuare comunque a fare windskating, jogging e grigliate ma anche per includere una parte del resto del mondo. In questi posti mi piacerebbe tanto vedere come la natura evolva autonomamente. Queste sono le specie che vorrei trovare o ritrovare. Quelle libere dal controllo umano. Spontanee. Che seguano logiche proprie. E in questo e da questo lasciare che succeda, noi essere umani, lasciarsi contaminare, infiltrare. Ho cominciato a lavorare al concetto di infiltrazione nel 2011 e 2012. Spinta dalla mia esperienza personale di migrazione, dal mio essere interlocale nei continui spostamenti tra l’Italia e la Germania (Infiltrations 0039-49). Aprendo il lavoro poi a delle questioni storiche specifiche come nel caso di Infiltrations il cui colore bianco riprende il colore dei passaporti Nansen dei rifugiati apolidi a cavallo tra le due guerre mondiali del secolo scorso.
Tutto si muove, tutto cambia, lo dicevamo. Ma non solo gli esseri viventi. Anche lo spazio, in silenzio o no, più velocemente o più lentamente, muta in uno scorrere incessante. La gentrificazione: per fare un esempio, e le città diventano più ”permeabili”. Proprio analizzando come queste cambiano ci inventiamo, anche inconsciamente, uno strumento critico di investigazione, un’investigazione sociale, politica ed economica. Arriviamo a recuperare memorie, a ricevere informazioni, ad incontrare persone e nuovi spazi. Raggiungiamo intersezioni fisiche e di pensiero. Come fisarmoniche, le città (gli spazi vuoti tra le stesse) si allungano, si allargano, mandano, emettono suoni, rumori, senza sosta. Tutto in un mix di: persone, culture, modi di vivere, religioni e lingue diverse. E la lingua, sì, la lingua è, diciamolo, ancora la componente più importante per comunicare e per stare (vivere) in un posto insieme ad altre persone. Come racconti in Carpeting the ceiling del 2014. La lingua è lo strumento per l’adattamento. Ma torniamo al melting-pot delle nuove aree delle città moderne. Aree di desideri, di bisogni. Aree di libertà anche, come quelle della tua serie In Plain Sight del 2016. Come sei arrivata fin qui? Nell’opera vediamo lo ”spontaneo” una forma oltreché liberatoria, di ribellione, in un certo senso, per usare lo spazio come vogliamo. Uno spazio per l’individuo. Uno spazio per esprimere come vogliamo essere, come vogliamo apparire. A volte veniamo considerati per quello che facciamo, come ci racconti in Backbone, ma la verità è che noi siamo quello che pensiamo. Il pensiero contemporaneo, quello di massa intendo, andrebbe tutto rivisto e inquadrato sotto una nuova prospettiva critica. Tu parli di resilienza, a proposito, e di storie di genere, e anche per questo, Backbone ha l’aria di un lavoro tutto femminile…. Tutto dipende dal modo in cui si guardano le cose.
In Plain Sight nasce innanzitutto dal mio desiderio di uscire dallo studio e di liberarmi, quando lo sento necessario, dalle logiche di produzione di un oggetto. Il titolo che tanto mi piace è già un manifesto: sotto gli occhi di tutti, alla luce del sole. C’è un’idea di trasparenza e rivendicazione allo stesso tempo. E così sono le azioni che sono documentate nella serie. Prima di tutto vorrei dire che non si tratta mai di azioni violente. Non mi ritrovo nel linguaggio visivo violento e nemmeno nella deontologia che gli appartiene. Al contrario registro azioni sorprendenti che lo sono perché appunto rompono le aspettative e l’uso che noi facciamo dello spazio pubblico. C’è una grande componente di sorpresa e una vivacità espressa fenomenale in queste azioni. Rispecchiano l’istinto naturale di appropriamento di un territorio, di un luogo da modellare rispetto a sé stessi e alla propria conoscenza di quel luogo. La parte attiva del nostro vivere un posto. Io qui rimango incantata, perché in questi atti riconosco il mio limite e scopro l’intimità e la quotidianità degli altri. C’è poi un discorso più politico. Di solito queste azioni si svolgono al margine del consentito e del regolamentato. Mi sembrano quindi una buona manifestazione per capire il tipo di amministrazione con cui si ha a che fare. Quanto sia liberale, rigida o repressiva. È un lavoro che si apre indirettamente a delle questioni sociali come ad esempio l’integrazione e le discriminazioni. Chi si sente in diritto di usare lo spazio pubblico? E in che modo? Politico è anche il lavoro Backbone, la cui seconda edizione, quella del 2017 registra i lavori secondari che le artiste del programma berlinese Goldrausch hanno dovuto fare nel corso della loro carriera per sopravvivere come artiste. Si parla quindi anche qui di mancata integrazione, ma in questo caso femminile rispetto al mercato dell’arte contemporanea.