Muri che servono

Milano

La morte non è
nel non potere più comunicare
ma nel non potere più essere compresi
(Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità)

Era il ’77 quando Enrico Crispolti sottolineava, non primo né ultimo, l’utilità di una presa di coscienza dell’importanza delle scritte murali come strumento comunicativo alternativo, un medium immediato, non concettuale che sposta l’interesse verso un orizzonte reale, quello urbano, quello della ”quotidianità empirica” entro il quale era ed è possibile individuare una funzionalità semantica legata a filo doppio e sempre più spesso a bisogni comunicativi reali. (”Arti visive e partecipazione sociale”, De Donato editore, Bari 1977). La disamina di Crispolti partiva da quelle esperienze già al tempo storicizzate che facevano del muro un ”campo concreto di comunicazione” (Balla, Klee, Mirò, Masson, Dubuffet, Wols, Kline, Vedova, Motherwell, Guttuso ecc.), approdando agli interventi urbani di Volterra ‘73, che in particolare facevano emergere l’esigenza da parte di quello che lui definisce operatore culturale di volgere lo sguardo alla realtà socio-economico-culturale urbana e di riconoscere in quei segni delle urgenze. La riflessione di Crispolti però si riferiva a manifestazioni tendenzialmente ritenute artistiche, o comunque afferenti al campo delle arti visive. In un periodo storico in cui il muro è tornato tristemente alla ribalta nella sua funzione di dispositivo di separazione, divisione, respingimento e difesa di non si sa quali identità, è necessario provare rimarcarne le potenzialità non fisiche, ma comunicative.

Traducendo impropriamente il Miwon Kwon di Public Art as Publicity (2005), viene fuori un’analisi precisa delle quattro modalità di pratiche comunicative che Raymond Williams ha delineato in ”Comunicazioni e comunità” (1961): autoritaria, paternalistica, commerciale e democratica. In un sistema autoritario di comunicazione un gruppo dirigente controlla la società dei governati e tutte le istituzioni di comunicazione sono sotto il suo controllo respingendo ed escludendo quelle idee che minacciano la sua autorità; nessun individuo o gruppo è autorizzato a creare il proprio sistema di comunicazione. È un sistema in cui esiste un solo modo di vedere il mondo, con una serie di valori rigidi, e questi sono imposti da pochi su molti, modus operandi tipico di quelle che Foucault ha definito società disciplinari. La seconda modalità, quella paternalistica, autoritaria con coscienza, in cui la minoranza che è al potere è guidata da un senso di responsabilità e dovere di fare del bene, di fornire servizio pubblico alla maggioranza che è vista in un certo senso come arretrata e priva, potrebbe essere emblematica di quel passaggio alle società del controllo registrato da Deleuze in un saggio fondamentale del 1990 (”La società del controllo”), dove gli spazi di reclusione entrano in crisi e si comincia a intravedere una patina di libertà e di libertà di movimento in questa fase più illusoria che altro. Una patina che però prende forma presto. La modalità commerciale combattendo contro il controllo statale (considerato monopolistico, sia autoritario che paternalista), si basa sul libero mercato come base per fornire la libertà necessaria a tutti di pubblicare e leggere ciò che scelgono. Ma mentre resiste al controllo statale, scrive Williams, la modalità commerciale di comunicazione introduce nuovi controlli basati sui criteri di redditività. Di conseguenza, il potere sulle informazioni è ancora consolidato e condiviso tra un piccolo numero di individui o gruppi che controllano la maggior parte dei giornali, riviste, televisione, trasmissione e oggi anche Internet. Infine, la modalità di comunicazione democratica decentrata, che è un ideale non ancora pienamente realizzato per Williams, si oppone sia al commercialismo sia al controllo statale. È un sistema che massimizza la partecipazione individuale e consente ai gruppi indipendenti autorizzati all’uso di mezzi di comunicazione di proprietà pubblica – teatri, stazioni di trasmissione, studi cinematografici, giornali, ecc. – di determinare ciò che viene prodotto. Le modalità di espressione e comunicazione e i mezzi per la loro distribuzione o diffusione sono di proprietà delle persone che li usano. E ciò che viene prodotto è deciso da coloro che lo producono. Williams intende questo come un percorso evolutivo, ma allo stato attuale, nell’era delle ibridazioni e della fluidità, non è così difficile riconoscere elementi di ognuna delle quattro modalità all’interno del multiforme sistema comunicativo della società contemporanea, la società della servitù volontaria. Alle quattro modalità di Williams ne andrebbe aggiunta una quinta, che potrebbe essere definita clandestina e che esiste da quando l’uomo ha imparato a comunicare. Assume spesso (ma non solo) il muro come campo concreto di comunicazione e comprende tutti quei messaggi non gestiti dal potere che si propagano orizzontalmente da quei tessuti sociali che non hanno rappresentanti nel mondo dell’informazione che conta e scelgono il contesto urbano come sistema di amplificazione diretta. Si tratta di una modalità clandestina perché il più delle volte si concretizza in forma anonima, non proprio alla luce del sole e in barba alle disposizioni del decoro urbano e del politicamente corretto, motivo per cui è spesso colpita da censura – tranne nei casi di simpatiche e sgrammaticate dichiarazioni d’amore. Sono il più delle volte messaggi di resistenza, di ferma e dura opposizione allo stato delle cose, segni e simboli di una volontà reazionaria molto simile a quella che Terry Gilliam ha raccontato ne L’Esercito delle 12 scimmie. Il ”We did it”, graffito, che Bruce Willis scopre tra le macerie di un mondo devastato e ripulito almeno in superficie della follia umana si rivelerà essere l’emblema di un sentire clandestino che si opponeva ai poteri forti in una situazione non così lontana da quella che viviamo noi oggi tra degrado, autodistruzione e disumanizzazioni varie.

Ora, è lecito chiedersi ancora se e quanto le scritte murali possano rappresentare, al pari di forme più alte di espressione, i gradi di un termometro sociale sempre più esposto a shit storm, cattiva (controllata) informazione, cinica e squallida propaganda? Quanto le scritte murali stesse possano risentire di tutte le distorsioni e le imposizioni del capitale? Quanto possano avere effetto come agenti di critica sociale? La risposta può essere in quelle azioni repressive attuate da chi governa, o da chi mira a governare e indirizzare le opinioni: un addetto comunale incaricato dal proprio dittatore di coprire la scritta ”I don’t like Erdogan” nel giugno del 2016;o il più contemporaneo rastrellamento ordinato dall’attuale Ministro dell’Interno italiano di striscioni di legittima opposizione, con ogni probabilità sono atti di autenticazione della forza di quella modalità comunicativa che abbiamo definito clandestina.

Quel riconoscimento auspicato da Crispolti della funzionalità semantica delle scritte murali e dell’importanza di quei ”segni di una comunicazione che soltanto l’urgenza politica, culturale, esistenziale della base proletaria giustifica e alimenta” è un processo che andrebbe continuamente monitorato e tenuto in funzione, data la fragilità del medium in questione. Ma con quali strumenti? Se quelli dell’informazione risultano essere inquinati, sterili e sterilizzati – viene in mente la performance Diario (Journal) dell’artista brasiliana Marila Dardot che nel 2015 scrive con l’acqua, su un grande muro di cemento di una casa messicana progettata da Tadao Ando, titoli di giornali asciugati in pochi istanti dal sole – è necessario pensare a soluzioni che abbiano un effetto sul pubblico e sulle strutture del pensiero collettivo. E il tentativo di Fabrizio Bellomo, la performance-installazione Pensieri-Sparsi alla Fondazione Feltrinelli di Milano in occasione di About a city // RethinkingCities 2019 (26 maggio 2109), si pone proprio come un’operazione di critica sociale che sfrutta gli strumenti anche linguistici dell’arte contemporanea e soprattutto i piani alti della cultura con la sua, sempre elastica, frusta comunicativa. L’artista pugliese ha selezionato per strada e sul web una serie di scritte murali che ha ritenuto essere indicative di uno stato di sofferenza e di reazione di matrice popolare, ascrivibili alla modalità comunicativa clandestina: ”Gentrification is racism”, ”L’affitto è una rapina”, ”Fanno la guerra ai poveri e la chiamano riqualificazione”, ”È tutto loro quello che luccica”, ”Terrorismo sono i militari nelle strade” ecc.

L’azione di Bellomo, che consiste nel riscrivere questi messaggi sulle vetrate della Fondazione Feltrinelli armato di felpa da graffitaro e bomboletta spray, mira innanzitutto al trasferimento e all’installazione di un registro linguistico e comunicativo particolare, urbano e popolare in un contesto che di alto non ha solo l’ubicazione; mira a quello che Crispolti ha definito recupero di segni diversi e alternativi per una ”apertura verso un termine altro di dialogo culturale”.

Il rischio, recuperando Dwight Macdonald (Masscult e Midcult, 1960), potrebbe essere di produrre un’opera di Midcult, un ibrido pericoloso nato da rapporti contro natura tra Masscult e Alta Cultura, che nasconde le fattezze della cultura di massa (formula, reazione controllata, nessun metro di misura tranne la popolarità) con ”una foglia di fico culturale”. Ma, se è vero, come ha scritto Marcuse, che ”nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un alto di livello di astrazione” (L’uomo a una dimensione, 1967), con l’atto di riscrivere – una ripetizione che non lascia spazio a disquisizioni formalistiche e a quell’autodefinizione di un’originalità à la Sturtevant – Bellomo favorisce quella tensione a ”uno spostamento verso l’orizzonte reale, urbano, verso il livello della quotidianità empirica”  auspicata al tempo da Crispolti, che s’incarica di riscoprire un vigore critico che posiziona questo tipo di interventi su un binario alternativo rispetto agli ormai stantii sensazionalismi street-artistici banksyani e alle continue e sistemiche masturbazioni pseudo-intellettualistiche (o brillantemente intellettualizzate) su labirinti, gattini di internet, trip lisergici, distopie post-apocalittiche e male integrate, e antropomorfie sempre e comunque vendibili.

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