Saverio Rotundo, morte di un maestro incompreso

Catanzaro

Un vero maestro dell’arte contemporanea si è spento a 96 anni ricordato soltanto dalla sua città natale, Catanzaro. Ed era inevitabile che finisse così: Mastro Saverio Rotundo, detto ”U Ciaciu”, non è mai entrato in un museo nazionale, non ha mai venduto una sua opera in asta (che io sappia non ha mai voluto vendere neppure una sola sua opera), non è mai apparso in nessuno dei grandi circuiti internazionali del contemporaneo. Mastro Saverio creava per se stesso. Ciò gli bastava e lo rendeva felice. È il primo artista che io abbia conosciuto. Sono nato anche io a Catanzaro, in via San Giorgio. Il nostro faceva parte di un gruppo di tre palazzi che aveva costruito mio nonno insieme a due suoi amici. Era talmente nuovo, moderno e centrale che negli anni 60 nei grandi magazzini che affacciavano su Corso Mazzini vi si installò l’ Upim. Un evento per il capoluogo calabrese. Mastro Saverio aveva la sua bottega lì accanto, in largo Poerio. Per questo lo vedevo ogni mattina, per questo chiedevo sempre a mia madre cosa fossero quei manufatti bizzari, realizzati con ferri riciclati saldati l’uno con l’altro fino a formare le “statue” più assurde che i catanzaresi avessero mai potuto vedere. Era scontroso, parlava poco e malvolentieri, anche perché non pochi lo prendevano in giro considerandolo essenzialmente un eccentrico se non un pazzo. Lui lavorava come fabbro e come saldatore, raccogliendo e vendendo ferro vecchio. Sempre con il cappello di carta in testa e la sigaretta in bocca. L’ho visto ridere raramente e bestemmiare spesso. Ci ho messo un po’ a capirne l’indole e ad apprezzarne la profondità. Crescendo. Da piccolo ne avevo quasi paura, quando l’incrociavo, ed accadeva spesso, distoglievo lo sguardo e il passo accelerava inconsciamente. Giorno dopo giorno, incontro muto dopo incontro muto, ci siamo abituati l’uno alla presenza dell’altro. Sono così venuti i saluti. Buon giorno e buona sera, niente di più. Ma la cordialità aumentava con il passare degli anni. Mi dava del voi anche se quando cominciammo a salutarci ero ancora un adolescente. Capii col tempo che questa era una sua forma di rispetto nei confronti della mia famiglia e soprattutto di mio zio Peppino, che abitava a fianco a noi e con il quale Mastro Saverio chiacchierava di fatto ogni giorno. Ci ho messo tempo a capire l’uomo straordinario che fosse, perché lui non voleva essere giudicato. Il suo essere chiuso era un modo di difendere il suo modo di vivere e la sua arte. I suoi lavori negli anni Sessanta erano esposti da lui sotto casa nostra e davanti al Complesso Monumentale di San Giovanni, come uno scherzo, quasi una piccola provocazione.

Andy Warhol in quegli anni ancora non lo conoscevano in molti e lo stesso concittadino Mimmo Rotella non era ancora diventato la star che poi diventò. Quindi quegli ”obbrobri” fatti di materiale riciclato, di pezzi di automobili, di manichini e vecchi ombrelli, mischiati a sedie rotte, scaldabagni e spade di fuoco erano esibiti con modestia estrema. Li metteva per strada quasi scusandosene. Ma in cuor suo era felice. Sapeva di fare cose belle, diverse, che altri non erano in grado di fare né di capire. Una sera tardi, saranno state le due di notte, rientravo a casa da una serata con amici e mi fermai a guardare uno di quei suoi lavori folli. Di giorno con la gente ed il traffico era difficile coglierne la complessità, la bellezza. Ma quella notte mi soffermai. Passai minuti a guardare i dettagli, a cercare di capire cosa ci volesse dire ”U Ciacio” con quei suoi lavori. Da una macchina vecchissima, mi pare fosse una Fiat 127, parcheggiata nel buio uscì lui. Questa volta non mi spaventai. ”Chi ”nda diciti”?, mi chiese. ”È bello” gli risposi. Restammo lì a guardare quelle masse di ferri accroccati e ricuciti come fossero statue punk dedicate alla gioia. Restammo tutti e due in silenzio a contemplare quel magnifico lavoro e tutti e due muti, come avessimo perso la parola, ce ne andammo a dormire. Fu la nostra comunione. È come se lui avesse capito che io avevo capito che lui era un vero artista. Da quel giorno i saluti quotidiani divennero sempre più cordiali. ”Buongiorno Mastro Saverio”. ”Buongiorno come state, salutatemi vostra madre”. Negli anni, nei decenni i suoi lavori aumentarono. Li si poteva vedere in vari punti della città. E pian piano tutti presero contezza che quel matto stralunato coi baffoni era sì un maniscalco ma anche un po’ artista. Qualcuno provò anche a comprare i suoi lavori, ma lui era restìo. Forse regalò qualcosa, non di più. Perché lui, l’ho detto, creava per sé stesso. Per il piacere di farlo e poi di rimirare il suo creato. Ha vissuto ed è morto povero perché questa è la vita che si era scelto. La sua grandezza artistica è quella di tutti i grandi contemporanei. Ha aperto strade che altri ancora non riuscivano a vedere, utilizzando materiali e tecniche che ancora oggi pochi sono in grandi di praticare, ha creato con un materiale di risulta, il ferro, che è duro e brutto da vedere, dando vita a veri e propri inni alla gioia. Ha riciclato negli anni dei grandi inquinatori, con i suoi fiori metallici dentro proietti slabbrati ha celebrato la natura come antidoto alla guerra. È stato un’inconsapevole antesignano della ”land art” e del minimalismo alla ”less is more” che arriverà anni dopo. Ha fatto tante cose prima degli altri ad esempio senza sapere che altrove qualcuno come Germano Celant battezzava il movimento dell’Arte Povera. Un genere nel quale Saverio Rotundo avrebbe avuto ben diritto di figurare come esponente di spicco. Le sue opere nascono prima dei ferri di Kounellis e molto prima dell’acciaio in piazza di Anish Kapoor. Ma mastro Saverio Rotundo detto ”U Ciaciu” era un semianalfabeta nato a Catanzaro, città di provincia che si connota per l’insensibilità verso il genius loci al punto che non riesce a capire il valore né quelli che sono rimasti né tantomeno la stragrande maggioranza che è andata via. Mastro Saverio aveva capito sin dall’inizio l’indole della sua città e per questo se ne fregava di tutto e di tutto. Più o meno come fecero Antonio Ligabue, Vincent Van Gogh e i milioni di alti artisti che sono morti senza che la propria arte fosse compresa ed apprezzata. Oggi quella città che lo ha deriso ed ignorato per decenni tenta di celebrarlo. Lui da lassù si starà facendo una grassa risata sotto i suoi baffoni ingialliti dalla nicotina. Buon viaggio Mastro Saverio.