Anna Franceschini ci mostra qualcosa, quello che vedono i suoi occhi, quello che vede la sua mente. In maniera discontinua, proprio come accade a noi molte volte se ci catturano più cose insieme. E si crea un cortocircuito o uno strano legame tra più elementi disgiunti che si incollano veloci dentro di noi. E si modellano passando gli uni dopo gli altri. Così, rimangono uniti nella nostra memoria e li riviviamo nella testa e li elaboriamo fuori. Poi, con loro, conosciamo il mondo. E ci mostriamo, e li facciamo vedere, facendoli rivivere. Il lavoro di Anna è un lavoro ”sistemato” ma non ordinario. Una ricerca raffinata in cui sono entrata subito, qualche minuto dopo averla vista per la prima volta. Dalla sua alla mia testa.
Sei a Venezia in questo periodo perché sei stata invitata da Milovan Farronato a lavorare su un progetto in occasione della Biennale di quest’anno. Per un tuo cortometraggio sperimentale che vedremo tra qualche mese per la chiusura…. Cosa hai pensato quando ti ha chiamata? Immagino sia stata una notizia che ti ha esaltata. Sto provando solo ad immaginarti davanti ad una proposta del genere…. O magari la tua reazione è stata totalmente diversa. Ti ripeto. Non so, e immagino. Quindi, parlami un po’ di come è andata, cosa hai provato, cosa hai e stai pensando. Come va? Sì, dimmi come va.
Sono stata molto felice, già dalla nomina di Milovan ero molto felice, per il suo raggiungimento, perché è un amico. Quando mi ha proposto questa commissione ho pensato che il compito sarebbe stato estremamente delicato, complesso, ma tradurre in maniera filmica un luogo non è una cosa nuova per me. Vengo ”dal documentario”, da quel territorio che si usa definire ”documentario d’osservazione”, di cui Frederick Wiseman è uno degli esponenti più noti e riconosciuti. Il mio primo documentario breve è POLISTIRENE, (2007), l’osservazione del processo di produzione di manichini da vetrina, in una piccola fabbrica del bergamasco. A seguire ho girato un altro mediometraggio non fiction, CASA VERDI (2009), nell’omonima casa di riposo per musicisti in Piazza Buonarroti a Milano. Anche qui, lo spazio, che determina il titolo, è il protagonista. Entrare nel labirinto di Milovan forse non è poi così dissimile. Si tratta di un lavoro sulla percezione del luogo, con la differenza che qui lo spazio è la materializzazione di un’idea, quella curatoriale, popolata da altre idee/oggetto, le opere dei tre artisti in mostra. E il film prevede una mia idea che dia forma a tutto questo. Già descrivendo questo processo, mi sembra di entrare nel cuore di un labirinto.
CARTABURRO. Un progetto che mi piace già dal titolo. Davvero articolato. Sia concettualmente, sia per la sua installazione. Che ci dà allo stesso tempo tanti punti di vista: il tuo (scontato), quello di Carlo Mollino, e secondo me anche quello di un osservatore. Come se tu ti fossi in qualche modo sdoppiata e ci regalassi l’occhio di uno o più osservatori, o di una donna, o di un uomo.
CARTABURRO, un progetto presentato da Almanac (Torino/Londra), finanziato dall’Italian Council e realizzato in collaborazione con il Politecnico di Torino, è in effetti la messa in scena di una pluralità di sguardi. Confrontarsi con un archivio così eterogeneo, pur originato da una sola mente, ha significato non appiattirlo, ma al contrario, aggiungere complessità. È vero, ho dovuto sdoppiarmi, triplicarmi forse, diventare una pluralità di soggetti, o almeno provarci. Maschile, femminile, non umano. Oggetto, donna, uomo. Corpo, occhio, superficie. In gradienti e intensità differenti. Ma la mia prima, molto diretta domanda alla curatrice del Fondo Mollino, l’architetta Enrica Bodrato, è stata di natura apparentemente differente, ma non troppo. Carlo Mollino è stato un fascista? No, non lo è stato. Bene, andiamo avanti. La sua non appartenenza al partito, a differenza di una grande maggioranza di architetti italiani di grande fama, mi ha permesso di concentrarmi su alcune istanze intime e personali del Fondo, come la rappresentazione erotica del corpo femminile nel corpus di Polaroid e in alcuni progetti e il design degli interni, come spazio cinematografico, e della messa in scena, in dialogo con il mio desiderio di risoggettivazione del ”non-umano”, di animazione dei manufatti.
Quando. Quando hai pensato ”voglio fare l’artista”. A volte diamo per scontato che voi fate della vostra vita un lavoro. Sviluppate un pensiero, una ricerca e vi buttate. Vi buttate in questo ”mondo strano” e fate gli artisti. Sempre. Senza nessuna separazione con il resto. Passione. Coraggio. Non so cosa’è. Anche se ci penso spesso ultimamente. Qual è stata quella ”cosa” (quel momento) che ti ha fatto scattare e ti ha spinto a…
Da una parte mi vien da dire di aver voluto far l’artista da sempre, ma non mi è stato permesso. Mia madre non ha voluto che facessi il liceo artistico. Quindi ho studiato al liceo scientifico. Ho studiato ingegneria per un anno e mezzo, dopo. Ho smesso, accadimento che il mio super-Io non ha preso particolarmente bene. Ho avuto un periodo di depressione piuttosto breve, ma acuto (nel frattempo la parte più profonda della mia psiche elaborava il lutto per la perdita di mio padre, mancato quando avevo sedici anni) e poi mi sono iscritta a ”Scienze della Comunicazione”. In realtà volevo iscrivermi a Filosofia, ma il timore di un secondo fallimento mi ha bloccata. Il primo, primo anche in una carriera scolastica sempre brillantissima, era stato troppo doloroso. Mentre scrivevo la tesi ho frequentato i corsi serali della ”Scuola di Cinema”. Se esiste un momento di folgorazione, credo di ricordarmelo, sì. Quando ho visto per la prima volta la fabbrica di manichini che poi è diventata POLISTIRENE, non ho avuto un secondo di esitazione. Quel luogo sarebbe diventato il mio film e sarebbe stato bello e ben fatto. Il film, opera prima, è stato selezionato al Festival di Locarno. Avevo ventisei anni e niente da perdere. Avevo già conosciuto il dolore, la disperazione, la mancanza di autostima. Stavo facendo una cosa per me, mi sembrava estremamente giusto. Poi ho desiderato viaggiare e vedere il mondo. Sono stata via sei anni. L’arte è stata il mio viatico e la mia ragione.
Il cinema è una componente significativa nel tuo lavoro. Un lavoro fluido che scorre e non si ferma. Non si ferma neanche quando il film è finito perché è pieno di livelli che poi fermentano e ti fanno ripensare. O meglio, così digerisco io quello che fai… Hai mai pensato di creare qualcosa di: fermo, silenzioso breve ma anche ”statico”?
Di cose brevi e silenziose ne ho create tante, di statiche pochissime. Il movimento è una componente fondativa di quello che sono e faccio. Il cinema è il territorio in cui mi sono formata. In qualsiasi cosa io faccia, rimane almeno come residuo, sottotraccia. Più che un linguaggio è sempre di più il modo del pensiero, che non si traduce necessariamente in ”film”. Forse per questo sembra che alcune volte le immagini in movimento non si fermino lì, che continuino. In effetti sono fatte per questo, per muoversi infinitamente e far muovere all’infinito. I miei film molto spesso non hanno una fine, non è necessario. Se si guarda una scultura ci si chiede se c’è una fine? Quando finisce? E un quadro finisce? È finito? Le opere non finiscono, nemmeno quando smetti di guardarle o quando smetti di farle. In molti miei lavori ci sono delle ”cose” che si muovono in maniera ripetitiva, ipnotica. È un tipo di movimento che per me è proprio di una dimensione incommensurabile rispetto all’umano, a-teleologico, celibe, è un tentativo di creare un rapporto con ciò che non è umano, che non ha intenzioni o desideri, o forse li ha, ma che a un soggetto umano sono inattingibili e quindi non rimane che osservare. In un certo senso, per tornare alle prime righe di questa intervista, forse non ho mai smesso di fare ”documentario di osservazione”, anche se questi documentari, a volte, hanno l’apparenza di sculture.
Il sogno e la memoria, quello che immagini e quello che ricrei sono due passaggi importanti per te, immagino. E nei tuoi lavori li bilanci e a volte li mescoli. A volte è più chiaro il rimando come all’onirico, altre volte quello alle ”cose”. Io vedo questi due binari paralleli: interpreto. Parlami di questi passaggi, se ci sono anche per te. Mi interessa il processo: come si sviluppa. E tu dove sei? Nel sogno? Nelle cose? Oppure?
Non mi rifaccio all’onirico, almeno in maniera manifesta o dichiarata. Mi interessa il surrealismo per il rapporto diretto con le cose. Credo che la percezione superficialmente “onirica” delle mie immagini sia dovuta al fatto che mi rivolgo al non-umano, all’artificiale e al tecnico senza mediazioni. Questo comporta un misunderstanding, a volte. Come se tutto fosse in un’atmosfera di sogno. Ma non lo è affatto. È tutto “reale” e possibile, per quanto mi riguarda. Rispetto a dove sto io, non saprei, a volte spero di non esserci affatto. Mi piace realizzare i miei lavori, ma ho una coscienza critica rispetto all’autorialità intesa in maniera romantica. La trovo anacronistica e insignificante. Tutti siamo autori e tutti non lo siamo. Cosa importa? È ovvio che se compio un atto, un gesto, questo è filtrato da una soggettività, il più delle volte la mia, ma credo sia più interessante provare a immagine di bere un caffè dal punto di vista della tazzina o del cucchiaino piuttosto che da quella del cliente del bar.