Anthropocene, la mostra

Bologna

«La parola Antropocene suggerisce l’idea che l’umanità non faccia più parte della natura», questa la riflessione che campeggia tra l’immagine di un mare di tetrapodi a Dongying in Cina e veloci fotogrammi della Galleria del San Gottardo in Svizzera. Superato il limite della natura selvaggia, l’essere umano è dall’altra parte. Ci si domanda allora cosa sia e cosa resti di questa identità perduta. La risposta di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, ospitata in anteprima europea alla Fondazione MAST di Bologna fino al 22 settembre, è una mostra bellissima e importante, capace di restituire la complessità del presente senza retorica, ma con l’intento testimoniale di condividere un’esperienza e tessere il racconto di tutto il pianeta ridisegnato dall’essere umano. Anthropocene, suddivisa in quattro capitoli, abita l’intero edificio, riconfigura lo spazio espositivo facendone il teatro di uno svelamento: saccheggiata, contaminata, consumata, la Terra è diventata lo specchio della nostra incoscienza. Densa e complessa, multimediale e interattiva, si rivolge ai nostri sensi storditi e malfunzionanti; echeggia una sensazione di perdita, una realtà di scomparsa e una richiesta di ascolto, a shift in consciousness. Il termine ”Antropocene”, introdotto da Eugene Stoermer e Paul J. Crutzen nel 2000, identifica una nuova era geologica e riconosce nell’essere umano la forza dominante che riscrive la natura. Se dal punto di vista geologico questo concetto è oggetto di discussione, riversare valanghe di COnell’atmosfera, sottrarre ed esaurire le risorse disponibili, sviluppare nuovi materiali inquinanti, sfruttare e depredare il mondo è un’accecante evidenza. La mostra, curata da Sophie Hackett, Andrea Kunard e Urs Sthael, costruisce una narrazione figurativa delle conseguenze distruttive degli errori umani attraverso una selezione di 35 fotografie di grande formato, 13 videoinstallazioni, quattro murales ad alta risoluzione e tre installazioni di Realtà Aumentata che si combinano nelle diverse sale. Si innesta in questa trama multimediale il film Anthropocene: The Human Epoch, codiretto dai tre artisti e terzo capitolo di una trilogia composta da Manufactured Landscapes (2009) e Watermark (2013). Con l’intento di rendere visive categorie come ”tecnofossili” o ”bioturbazione”, si crea una commistione tra arte e scienza. Il progetto, frutto di un lavoro durato quattro anni, si è sviluppato infatti in collaborazione con gli scienziati stessi. Inoltre i molti pannelli esplicativi che corredano il percorso espositivo spiegano questa terminologia e i processi umani documentati nelle immagini. Le fotografie di Burtynsky sono visioni aeree e sotterranee dettagliate di paesaggi alterati su vasta scala che, attraverso un linguaggio pittorico astratto, offrono un’analisi estetica dei sistemi imposti dall’essere umano sulla natura. Le videoinstallazioni e le proiezioni su parete di Baichwal e de Pencier, strettamente legate alle fotografie, riflettono su diverse rappresentazioni dell’Antropocene attraverso per esempio una lunga veduta, continua e perpendicolare delle raffinerie di petrolio a Houston in Texas o il rogo a Nairobi delle cataste di zanne d’elefante e corna di rinoceronte confiscate ai bracconieri nel 2016. I murales, tableau su larga scala che si estendono su tutta la parete, integrano tecniche fotografiche (centinaia di immagini ”cucite insieme”) e filmiche (”estensioni video”) così da rendere possibile un’esperienza immersiva attraverso la Realtà Aumentata. Tra gli scenari rappresentati le psichedeliche miniere di potassio nei Monti Urali in Russia, la gigantesca discarica a Dandora, il disboscamento della foresta Cathedral Grove di Vancouver Island, il lavoro della ciclopica macchina Bagger 291 nelle miniere di lignite di Hambach in Germania. 

In conferenza stampa Burtynsky racconta di aver scelto, per rappresentare ”i segni indelebili lasciati dal genere umano sugli strati geologici del pianeta”, quei luoghi dove la scala di quello che gli artisti volevano mostrare è immensa. «Inoltre – continua de Pencier – non si tratta solo di usare un sistema documentaristico per raccontare questa storia, c’è anche l’elemento estetico. Quindi abbiamo scelto per esempio le cave del marmo di Carrara richiamando alla mente le statue di Michelangelo, così da attrarre il pubblico e illustrare dove si è arrivati con questo sfruttamento». Ma ci sono anche immagini di meravigliosi ecosistemi, come la barriera corallina del parco marino dell’Isola di Komodo in Indonesia. «Le immagini di Anthropocene mostrano cose sbagliate, ma c’è anche equilibrio» afferma Sthael. «Sono inclusi paesaggi puri e incontaminati per ricordarci di come sono se lasciati da soli. E sono ancora luoghi che possono essere protetti e recuperati» spiega Baichwal. Esiste la biodiversità, ma lo spazio è sempre più stretto. La specie umana è cresciuta e continua a crescere smisuratamente. Ma quello di Anthropocene non è un grido d’accusa o la constatazione di un’amara impotenza, perché c’è ancora qualcosa che si può raccogliere e preservare. «Jennifer, Nicholas e io crediamo che il nostro lavoro possa smuovere le coscienze (…) Speriamo di far maturare nel pubblico la consapevolezza degli effetti, di solito nascosti, dell’impatto globale e cumulativo che la civiltà ha sul pianeta. Pensiamo che descrivere il problema in modo vivido (…) possa concorrere ad animare un dibattito sempre più vivace su quelle che possono essere le soluzioni ai vari problemi (…) in modo che le popolazioni future possano continuare a godere della magia e dello splendore di ciò che la vita su questo pianeta ha da offrire». C’è una terribile bellezza in queste immagini, non sprechiamola.

Il progetto si basa sulla ricerca, volta a dimostrare che gli esseri umani sono diventati la singola forza più determinante sul pianeta, del gruppo internazionale di scienziati Anthropocene Working Group impegnato nel raccogliere prove del passaggio dall’attuale epoca geologica – l’Olocene – all’Antropocene.

La mostra è stata presentata per la prima volta all’Art Gallery of Ontario di Toronto e alla National Gallery of Canada di Ottawa, organizzata in partnership con la Fondazione MAST, in contemporanea alla proiezione in anteprima mondiale del film al Toronto International Film Festival nel settembre 2018.

Fino al 22 settembre; Fondazione MAST, Bologna; Via Speranza, 42; info: anthropocene.mast.orgtheanthropocene.org

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