Le Dictateur è un progetto editoriale che nasce nel 2006 da un’idea di Federico Pepe e Pierpaolo Ferrari, amici e collaboratori di vecchia data. Un progetto che negli anni si è evoluto e consolidato e si è fatto anche spazio espositivo all’insegna della contaminazione tra mezzi espressivi e del bilanciamento tra artisti affermati ed emergenti. Numerose le collaborazioni, tra cui quella con Patricia Urquiola, iniziata con la mostra Maybe One Day, un momento di design immaginato dal taglio molto artistico e molto poco pratico. Ad aprile, nei rinnovati spazi di Via Paisiello, è in arrivo La bava sul cuscino, una mostra in cui Thomas Braida si confronta per la prima volta con la produzione di pezzi funzionali, in ceramica, su cui proietta il suo mondo pittorico. Curata da Caroline Corbetta, che tempo fa aveva commissionato all’artista un oggetto per la sua casa, l’esposizione attraversa il periodo a cavallo tra la settimana dell’arte e quella del design, a segnare il suo essere un crocevia tra questi due mondi. Inoltre a maggio, una densa retrospettiva sulle pubblicazioni di Le Dictateur, nel quartiere di Brera. Abbiamo intervistato Federico Pepe per conoscere da vicino il progetto.
Artista, designer, pubblicitario. Lasciamo perdere le etichette e passiamo a cosa c’è dietro il tuo percorso. «Le cose si sono costruite facendole. Dopo l’Accademia di Comunicazione e un anno a Londra, entro come stagista in Macc Erickson e lavoro per circa venti anni in pubblicità, cambiando diverse agenzie. Nonostante mio padre venisse da quel mondo, ho iniziato quel mestiere in maniera quasi casuale. Bello, divertente, un massacro, ma quasi subito mi rendo conto che stando lì, pur potendomi esprimere al meglio, potevo fare solo certe cose. La lampadina mi si è accesa nel vedere Paola Manfrin insieme a Maurizio Cattelan creare Permanent Food in agenzia. Così inizio a dar sfogo a un’altra parte di me, a creare il lavoro».
Spaziavi già in diversi media? «Pittura, video, performance, tantissime cose diverse. Ho cominciato frequentando l’ambito artistico e collaborando con una serie di gallerie, un po’ come fossero state le prime esperienze sessuali, più o meno disastrose. Ai tempi non ero mai disposto a scendere a compromessi con quel che mi veniva chiesto. Poggiavo su questa carica idealista, che poi mi sono reso conto stupida, perché la discussione deve essere sempre aperta. Decido di lasciare questo mondo».
Di qui la nascita di Le Dictateur? «Esatto. Creo Le Dictateur perché idealmente era il posto dove ero io a decidere le regole e a fare quello che volevo. Di lì a poco dopo arriva lo spazio in Nino Bixio. Non c’è mai stata un’idea progettuale sullo spazio. Doveva essere una sorta di laboratorio e studio, però poi all’atto pratico né io né Pierpaolo lo usavamo perché lavoravamo indipendentemente in altri luoghi. Decidiamo così di fare una mostra, di creare una situazione che nella nostra immaginazione era quella alla quale avremmo voluto partecipare. Entrambi frequentavamo mostre ed eventi a Milano, con grande noia devo dire. Mostra, contenuto, alcol, musica, apertura e chiusura contestuali: questo doveva essere il nostro format. Volevamo una forma di intrattenimento che fosse affine al contenuto. La prima volta fu una cosa incredibile, con una mia personale, e da lì gli eventi di Le Dictateur sono stati storici, senza che ci sia mai stata una programmazione di lungo termine alla base. E poi non solo arte, ma anche design, moda, abbiamo cercato da subito di contaminare».
Quali sono gli artisti con cui hai lavorato? «Tantissimi. Pivi, Cuoghi, Gabelloni, Cattelan, Perrone, Vascellari, Benassi, Pierpaolo, Presicce, Tadiello, Garutti… gli italiani li abbiamo abbastanza mappati. Ada Merini una delle ultime sue poesie le ha scritte per Le Dictateur. E poi tantissimi giovani. Una delle priorità è sempre stata di unire artisti established con sconosciuti, giovani, che però secondo noi avevano un indubbio talento».
Così hai chiuso definitivamente con la pubblicità? «Con lo studio – Le Dictateur Studio – faccio una parte di lavoro commerciale, che comprende branding, comunicazione e design».
Quanto è stato importante per la tua professione artistica? «È stato fondamentale sia nei limiti che nelle opportunità. Se non avessi sentito che c’erano dei limiti non avrei cominciato a fare arte, dall’altra parte il mondo dell’arte e degli artisti ha del potenziale autentico soprattutto da un certo livello in su. Che il professionismo sia finalizzato a produrre un lavoro commerciale o un lavoro artistico poco cambia, però lavori con tante persone e assorbi. A me va bene così, sono contento di venire da lì. E questa cosa di fatto poi ha definito il mio non essere una cosa ma essere tante cose».
È una ricchezza grandissima. «Assolutamente. Questo è derivato dal fatto che a me piacciono i contenuti ma non mi piacciono i mondi. Mi piace l’arte ma non mi piace il mondo dell’arte, mi piace il design, ma non mi piace il mondo del design, mi piace la comunicazione ma non il mondo della comunicazione. A me piace e interessa gestire la materia e non voglio appartenere a questi mondi patinati, fantasma, ma al mio personalissimo mondo, che è fatto di pochissime cose, pochissime persone».
Come hai vissuto il passaggio da un mondo all’altro? «Sai oggi questa cosa è un po’ più accettata, le persone sono più morbide, ma per me è stato durissimo, me ne sono sentite dire di ogni “il pubblicitario che vuole fare arte, l’artistoide, ora vuole fare design, chi pensi di essere” di ogni! Non so il fatto di essere una specie di tuttologo cosa significhi dal punto di vista della formazione, però ti dà la possibilità di vedere e capire più esperienze e provare più cose. Penso che l’artista è qualcuno che veramente può lavorare in più modi su più campi e non chiudersi in una cosa. Alla fine si riconduce tutto a una forma di curiosità. Le cose sono semplicemente successe: qualcuno mi ha commissionato dei lavori che venivano da mondi diversi e io ho accettato. Non sono mai stato snob. Questo perché sono nato nel mondo della comunicazione. All’inizio questo mi dispiaceva – pensavo “vorrei tanto essere un artista come loro” – poi quando mi è passata questa deficienza ho cominciato a pensare che invece sono molto fortunato ad avere la possibilità e la libertà di muovermi in modo diverso».
Si può dire che questa ibridazione rifletta la pubblicazione? «Assolutamente. Lavori, immagini. La prima volta che abbiamo reintrodotto la grande arte della parola è stata per il decennale, nel 2016, con una retrospettiva su tutti i numeri. Prima le parole erano un po’ come bandite. Le Dictateur nasce come una pubblicazione, di cui esistono 5 numeri, ma diventa anche publishing. Come casa editrice, all’inizio, ogni volta che facevamo una mostra facevamo anche una pubblicazione, quindi abbiamo pubblicato tanto. Lo scopo di Le Dictateur non era di pubblicare immagini, ma di dare a una serie di artisti la possibilità di sfidare quel mezzo. Non è solo inchiostro su carta. Gli artisti hanno sempre avuto la totale libertà di scegliere cosa fare, e così sarà sempre, per quanto riguarda quel prodotto lì».