Presentata in preview questo novembre al Macro Asilo di Roma, Non plus ultra è un’installazione itinerante di Gonzalo Borondo; è formata da 52 lastre di vetro, alte due metri e mezzo e larghe 80 centimetri, su entrambi i lati di ognuna è stampata un’immagine grafico-pittorica: una figura umana con le braccia aperte e una colonna. Composta da elementi identici che si ripetono, dà forma a uno spazio percorribile, chiede un coinvolgimento diretto e fisico, domanda di essere esperita. La nuova opera di Borondo interroga lo spazio che la ospita e, abitandolo, lo ridefinisce. La specificità di questo lavoro è la sua identità effimera: non un intervento diretto in un contesto specifico, come un murales, bensì una struttura malleabile che si adatta al luogo in cui è installata, nella dimensione di un incontro e dialogo con lo spazio. L’opera ha quindi una natura esperienziale: lo spettatore deve attraversarla. Borondo fin dagli esordi della sua attività artistica utilizza il vetro, materia da esplorare e fonte di possibilità creative, che nel tempo è divenuto protagonista di gran parte delle sue opere. Di natura modulare, Non plus ultra è una serigrafia su vetro realizzata con la tecnica dello scratching glass: un processo di sottrazione, attraverso l’utilizzo di strumenti appuntiti, della vernice applicata con pennelli e rulli sul supporto trasparente, in un incontro tra pittura e incisione. «La specificità di questo lavoro – spiega Borondo – è che poi lo sposterò in diversi luoghi; è un lavoro modulare che si può adattare ai diversi contesti. L’idea è che attraverso questa ripetizione, con un sistema di luci, si possa amplificare la ripetizione, per cui la moltiplicazione di questa immagine diventerà in qualche modo infinita. È poi molto legato a Roma, alla mia esperienza della città. Ci sono infatti da un lato figure di spalle in crocifissione che creano degli archi, dall’altro lato ci sono delle colonne. Questi soggetti, molto presenti in questa città, hanno influenzato il mio immaginario».
L’opera riflette sul concetto di limite e sulla necessità di trascenderlo: i limiti spaziali che costruisce si fanno varchi, passaggi. Lo spettatore, tra prospettive e riflessi, viene proiettato in uno spazio potenzialmente illimitato, per la trasparenza che fonde e confonde i suoi confini, per la moltiplicazione tendente all’infinito dei soggetti. Non contraddicendo gli elementi essenziali della sua poetica, l’artista spagnolo con quest’opera crea un dialogo dinamico con il luogo e con lo spettatore, nella prospettiva di un adattamento sempre diverso a un nuovo contesto. «È essenziale che la mia arte sia legata all’esperienza, ed è fondamentale che ci sia nel mio lavoro un dialogo totale con il contesto che l’opera abita. Per me è necessario oltrepassare il limite che c’è tra l’arte e la vita, così che l’arte possa far parte della vita delle persone». L’artista è infatti noto soprattutto per i suoi lavori di arte pubblica che indagano i temi del sacro e della natura umana. «Dall’inizio del mio lavoro – racconta – sono stato sempre affascinato dalla possibilità di lavorare in uno spazio pubblico, facendo sì che le mie opere potessero avere un impatto diverso sullo spettatore, che le incontra senza un’aspettativa o un condizionamento precisi, in un contesto non predeterminato». L’installazione, curata da Chiara Petropaoli, realizzata in collaborazione con 56Fili, dal 16 al 18 novembre ha abitato il cortile interno del Macro Asilo; è stato possibile assistere al processo stesso di realizzazione, che si è trasformato in un’esperienza collettiva. E si sposterà ancora a Roma, dove si adatterà ad altri spazi e dove prenderà altre forme, innescando ogni volta una nuova esperienza.