L’Iperuranio di Lascaris, una mostra per riordinare le idee

Roma

«È tempo di imparare a guardare/È tempo di ripulire il pensiero/È tempo di dominare il fuoco/È tempo di ascoltare davvero/È tempo di imparare a cadere/È tempo di rinunciare al veleno/È tempo di dominare il fuoco/È tempo di ascoltare davvero» recitano i versi di una canzone di Cristina Donà, presente nel suo album La quinta stagione, e sembrano idealmente rivolgersi al lavoro di David Lascaris, che si raccoglie e al contempo dissemina nel grigiore industrial-metropolitano per il suo debutto romano: l’ ὑπερουράνιος (Iperuranio) di Lascaris è il modo in cui impariamo a guardare la luce delle stampe in acetato, i cui colori si rarefanno cercando l’altezza intesa come profondità, l’elevazione delle sinapsi come fossero le ali dell’illustre biga, intrappolate in una trasparenza volutamente rigida e squadrata, rigorosa, affatto fragile come invece è facile, al depauperamento, la luce stessa, la cui vitalità ed efficienza divengono specie protette da esibire al mondo, preziosi scorci d’idillio che s’innestano nel cemento contemporaneo. È davvero tempo di ripulire il pensiero, di riportarlo a zero, di ritrovare la verginale purezza delle idee e la loro bellezza, come condizione dell’essere: cos’è difatti l’Iperuranio se non un archetipo, ovvero la forma preesistente e primitiva di un pensiero? Non sono forse le idee la base ”madre” dell’esistenza, quelle che regolano ogni comando e azione, anche quella di respirare? Le Apnee di David Lascaris sono frammenti di vita onirica, immateriale, sognata e trasognata che si esplicano attraverso gli strati progressivi della rifrazione della luce, come gradini taglienti che ri-conducono lo spettatore verso l’aulica dimora delle idee. Platone, nel Fedro, scrisse: «La bellezza splendeva tra le realtà di lassù come essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminoso […]: solamente la bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile». Ecco che la bellezza, conditio sine qua non per un lavoro d’arte che non sia disturbante, diviene il racconto di un reale immaginato che si esplica attraverso le stampe in acetato che sono ora pietra lavica infuocata, ora brillante abisso, ora tripudio di colori come arte della bellezza e del bene: il bello che è il bene, l’idea che è idillio, purezza, pulizia, rigore delle rigide linee dei plexiglass posti a protezione dei piccoli cosmi figli della mente di Lascaris. Anche Fluido di genere, opera che è pernio sia concettuale sia puramente visivo dell’intera esposizione, rappresenta un microcosmo utopico attraverso il ribaltarsi di alcuni canoni: una piramide rovesciata, un pendolo che accoglie al suo interno l’ideale fusione del genere femminile e di quello maschile (la commistione di fluidi di colore differente); tale fusione non ritrae l’intimità, bensì l’auspicarsi, seppur impossibile, dell’azzeramento dei generi, una sorta di sano disfacimento, che sembra obbedire alla logica dell’ Undoing gender (La disfatta del genere) così come enunciato dall’antropologa Judith Butler nel suo celebre e omonimo saggio. Il fluido per sua natura ci suggerisce l’idea di ibrido, e quindi di ciò che sta alla base, seppur intrinsecamente in continua evoluzione: l’origine e l’originalità, quindi l’autenticità, rappresentano la velocità del pensiero puro, ultimo baluardo salvifico del mondo a cui tornare ad attingere.