Verso la fine della sua vita l’artista italo-svizzero Alberto Giacometti decide di fare un ritratto a un giovane giornalista statunitense: James Lord che sogna in realtà di fare lo scrittore. Questo l’inizio di Final portrait, il film firmato dal regista Stanley Tucci e tutto incentrato sulla realizzazione del dipinto. Parigi, anni Sessanta, Giacometti è già un artista riconosciuto e affermato, un artista anziano che come dice nella pellicola con l’età ha imparato a mettere in dubbio il suo talento. «Ci vorranno poche ore, al massimo un pomeriggio – promette lo scultore al giornalista – e il ritratto sarà finito». James Lord, che da lì a pochi giorni sarebbe dovuto tornare a New York, accetta. Diciassette giorni dopo è invece ancora dentro lo studio di Giacometti a guardare il dietro della tela e il visto del pittore che non ne vuole sapere di finire il ritratto: «l’incompiutezza – dice l’artista – è nella natura dell’arte». James Lord partirà il giorno dopo lasciando il dipinto, secondo Giacometti, incompiuto.
Il film, basato sul vero diario del giornalista statunitense che riporta minuziosamente le esperienze di quei 18 giorni, pur concentrandosi su un aspetto minuscolo e marginale della vita artista dello scultore riesce a dare un buon spaccato del suo modo di concepire la pratica artistica, la sua poetica e il suo stile di vita. Vero e proprio centro gravitazionale del lungometraggio è l’atelier del pittore in rue Hippolyte-Maindron 46. Intorno al suo studio girano una serie di personaggi fondamentali per lo stesso Giacometti. Prima di tutto la moglie, Annette Arm, che con lui abita in una sorta di dependance dell’atelier, una stanza con solo un letto matrimoniale. Annette che mal digeriva l’infedeltà del marito ossessionato soprattuto da una prostituta, Caroline, diventata sua musa preferita. Alle due imprescindibili figure femminili il film riporta anche il rapporto con il fratello che divideva lo stesso studio, Diego Giacometti, anche lui scultore. E poi collezionisti, galleristi e malavitosi completano il paesaggio umano che circonda il pittore.
L’esplicita scelta del regista di utilizzare frequentemente una camera a mano, se in un primo momento destabilizza, successivamente rende più vicino allo spettatore la pellicola. I dialoghi fra i personaggi, molto curati, alternano battute e punte di depressione con molta maestria. Come Lord anche lo spettatore alla fine del film si sente esausto quando il giornalista varca per l’ennesima volta il cancello bianco dello studio dell’artista. I tempi di posa infatti lentamente sembrano logorare l’anima del povero Lord che non ha alternative se non rimandare continuamente la partenza e restare immobile seduto su una sedia davanti gli occhi attenti di Giacometti. La camera per sottolineare la concentrazione del pittore insiste sui particolari del volto di Lord ripresi da molto vicino e sembra quasi di vedere esattamente come vedeva Giacometti.
Final portrait è a tutti gli effetti un film piacevolissimo che riesce anche ad accennare qualcosa sul modo di lavorare di Giacometti, sulla sua indecisione cronica, sulla sua ossessione per una perfezione irraggiungibile. La pellicola esce nei cinema l’8 febbraio, la consigliamo, sia mai che poi vi viene voglia di approfondire però il ben più complesso lavoro di uno dei più grandi scultori del Novecento.