Davide Allieri

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un articolo pubblicato sul numero 112.

Davide Allieri si muove tra scultura e installazione, con frequenti incursioni anche nella fotografia, nel video e nella performance. Le sue opere lasciano al fruitore le riflessioni sulle storie che ne scaturiscono, la sua dialettica si sviluppa tra opposti e contraddizioni. Contorni vuoti e involucri di contenuti passeggeri ed effimeri sono per Allieri dispositivi per approfondire le domande dell’uomo, cercando la libertà espressiva assoluta. Tra passato e presente in un costante gioco di rimandi.

Qual è il medium che ti appartiene maggiormente?
«Sicuramente l’installazione, la scultura. Anche quando fotografo, stampo un’immagine, disegno, il pensiero è sempre rivolto al fine installativo, per me la cosa più importante è la collocazione dell’opera nello spazio. Fare scultura è come dipingerci dentro, ogni composizione ha un valore principalmente fisico per me, non solo legato alla bidimensionalità».

In Duet, la tua personale all’Artopia Gallery, hai presentato coppie di lavori richiamando l’attenzione sulle differenze. Il doppio è protagonista in molte delle tue opere: replica o contraddizione?
«La questione è super-contemporanea. Viviamo in una società fondata sul doppio, pensiamo ai social network e alla doppia esistenza reale e virtuale di ciascuno di noi che oramai è la normalità. In Duet molti lavori apparivano in un modo, ma si rivelavano altro se osservati da vicino».

Con Résonance nel 2016 hai presentato le tue opere in dialogo tra di loro in un percorso che si concludeva con Interlude, un sipario appeso senza nessuno spettacolo dietro. Il contenuto è effimero e soggettivo?
«Diciamo che seguo un filo rosso che si costituisce di forma, contenuto e linguaggio. Il contenuto è il vuoto, il doppio, il desiderio ma anche la mancanza. Il linguaggio è quello che scelgo di volta in volta. Forma e contenuto per me sono in stretta dipendenza e cerco sempre di sperimentare con questi due fattori interfacciandomi fisicamente con il mio linguaggio che è il motivo per il quale prediligo spesso la scultura».

Sempre in Résonance è presente il frame 1:22:20, tratto da Melancholia, il film di Lars von Trier.
«L’ho preso e l’ho riprodotto su immagini di opere antiche. Il senso era creare un’impressione apocalittica e la sensazione di fine imminente».

In Billdor, l’opera presentata al Talent Prize 2017 sembra che il vuoto entri in una cornice. Ma cosa c’è per te in quel vuoto?
«C’è la libertà assoluta. Siamo schiavi dell’immagine e di tutto quello che ne consegue. Per me il vuoto è ripartire idealmente da zero. Rappresenta il massimo della soggettività».

Hai partecipato ad Artissima, con la Rita Urso Gallery nella sezione Dialogue, quale opera hai presentato?
«Il mio intervento ha fatto parte di un dialogo con Zapruder film makers group, un collettivo che si colloca nella zona interstiziale fra arti visive, performative e cinematografiche. Ho portato due opere site-specific: 1,200 Cubic Meters Of Nothing, una vetrina in ferro verniciato che non contiene nulla, e Wall Mount, due supporti per televisori al plasma realizzati in ottone che non sostengono niente. Entrambe le opere si collocano in un territorio di mezzo nel quale il supporto diventa protagonista e contenitore con contenuto finiscono con il coincidere».

Già finito gli studi avevi capito che l’arte per gli artisti sarebbe diventata anche self-marketing?
«Dopo l’accademia avevo tante idee confuse, annoiato dalla foga e dall’ansia dell’iperproduzione ho scelto di ragionare per sottrazione ed esprimermi onestamente. In un mondezzaio sempre più imperante, preferisco rendere omaggio a un supporto vuoto che rendo protagonista».

BIO
1982
Nasce il 26 aprile a Bergamo
2008
Si laurea all’Accademia di Belle Arti di Brera
2011
La sua prima performance, Precision Impression IV, Mile End, London, UK
2015
È assistente di Marcello Maloberti che affianca anche alla Naba per il corso di Arti Visive
2017
Partecipa ad Artissima nella sezione Dialogues con la Rita Urso Artopia Gallery, in dialogo con il collettivo Zapruder Filmmakersgroup

Info: www.davideallieri.com

BILLDOR
è la struttura vuota di un tabellone pubblicitario con contorni in ottone. Davide Allieri trasforma in opera un display, mettendo lo spettatore nella condizione di completarne il significato. L’attenzione è sul supporto e il contesto dell’opera rimanda a una riflessione dell’artista sull’arte di oggi: «Mi sembra che un billboard sia più potente della tela, il marketing e la pubblicità hanno contaminato l’arte, anche gli artisti sono diventati dei Pr. Il billboard che è il supporto pubblicitario per eccellenza, oramai sostituisce la tela o la tavola». Con spirito critico verso la contaminazione tra arte e marketing che ha cambiato il modo di operare di molti artisti, Allieri si interroga sul senso di costruire qualcosa di nuovo «in un caos assoluto fatto di immagini create con foga da chiunque», scegliendo il vuoto perché più rappresentativo e onesto.