Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un estratto, il pezzo integrale è pubblicato sul numero 112. L’articolo è a firma di Alessia Carlino
Davide Monaldi, classe 1983, è un artista dalla forte componente espressiva. I suoi lavori, caratterizzati da un utilizzo non canonico della ceramica, esprimono nell’approccio stilistico, la sintesi di una ricerca votata a un percorso sperimentale che nasce in seno al disegno e alla grafica. Monaldi imprime nella sua opera la forza accattivante dell’iperrealismo che si coniuga istantaneamente alle molteplici declinazioni del linguaggio plastico-scultoreo. La ceramica, materiale d’elezione dell’artista, è da sempre considerata uno strumento capace di riflettere le caratteristiche estetiche e tecniche che si pongono al confine tra pittura e scultura. Nello studio di Roger Fry, tra i primi a considerare la ceramica un prodotto artistico e non solo un manufatto artigianale, notiamo l’inclusione nella sua analisi di una componente astratta e informale che coinvolgerà anche le avanguardie del primo Novecento. L’illusione estetica del lavoro di Monaldi produce un inganno socialmente utile: «È questo inganno – afferma il filosofo Adam Smith – che risveglia e tiene continuamente in moto l’industriosità dell’uomo. L’occhio è più grande della pancia, la capacità di uno stomaco non regge il paragone con l’immensità dei desideri». L’inganno, dunque, alimenta il desiderio corroborato dell’immaginazione, in quella necessaria condizione del tangibile dove le cose che si vedono, secondo Anassagora, sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono. Monaldi racchiude nella sua opera una sfida legata alla banalità degli oggetti di uso quotidiano, rappresentando la realtà nella prospettiva di una simulazione che al tempo stesso nobilita ed eleva l’ordinario.
Il tuo approccio estetico è caratterizzato da un particolare utilizzo dei materiali, qual è stato l’incipit della tua ricerca?
«Ho iniziato il mio percorso di ricerca con il disegno, dopo aver sperimentato questa tecnica per diversi anni ho sentito la necessità di ampliare i miei orizzonti ed è così che mi sono avvicinato, nel 2009, alla ceramica; una tecnica che ho sentito da subito come ideale per la traduzione scultorea dei miei soggetti grafici. Sono partito da una selezione di immagini che dal mio punto di vista sarebbero state più adatte ad essere rielaborate in scultura, soprattutto soggetti figurativi, da quel punto in poi, nel corso degli anni, mi sono mosso verso differenti direzioni, sempre utilizzando la ceramica attraverso assemblaggi e lavori di carattere più installativo».
In una tua recente intervista hai dichiarato di essere autodidatta: cosa ha implicato, nella tua evoluzione artistica, non essere soggetto a strutture di apprendimento accademico o istituzionale?
«Pur avendo una formazione accademica con indirizzo scultura, ho sviluppato la mia ricerca attraverso l’utilizzo della ceramica una volta terminati gli studi. A un certo punto è stato come se mi fossi trovato con le spalle al muro, costretto a prendere una decisione su dove indirizzare il mio percorso di ricerca e ho naturalmente capito che il materiale ideale, a me più affine, fosse la ceramica. Sono un artista al quale, pur essendo consapevole dell’importanza del confronto con altri artisti e addetti ai lavori, piace lavorare in solitudine, ho sempre sentito una forte necessità di fare le cose a modo mio, ogni volta infatti che ho cercato di seguire percorsi canonici ho fatto fatica a esprimermi e integrarmi».
Nella tua opera vincitrice del Talent Prize 2017 hai utilizzato la tecnica del trompe l’oeil, generando l’illusione di vedere una carta da parati in realtà un manufatto di ceramica. Questo artificio cosa racconta del tuo processo creativo?
«Il lavoro Carta da parati così come altri da me realizzati come Elastici, Trucioli e Chewingums non sono pensati solamente per ingannare l’osservatore con il loro iperrealismo ma anche per la fascinazione scultorea che ho sentito verso questi soggetti. Infatti, un aspetto che mi interessava molto era la sfida da un punto di vista tecnico in quanto lo sviluppo in scultura di oggetti cosi delicati richiede una perizia particolare. Inoltre questa serie di lavori è da intendersi come un’indagine su oggetti legati alla quotidianità, spesso privi di importanza ai nostri occhi ma che vengono nobilitati attraverso la traduzione scultorea. L’opera Carta da parati, in particolare, nasce dalla volontà di unire elementi appartenenti al processo industriale, con altri da me realizzati. Ero affascinato dalla possibilità di creare un’opera ibrida che prendesse spunto sia dal freddo mondo della serialità industriale che da quello del lavoro artigianale, più caldo ed espressivo anche per le piccole imperfezioni che ne derivano. Inoltre questo lavoro è anche un’allusione alla mia storia personale con un forte legame ai ricordi di infanzia».