Mattarella il rivoluzionario

Un paese che nega la contemporaneità nega in definitiva la propria esistenza e la propria prospettiva. Questo vale ovunque. In Italia però vale di più. Negare qui la contemporaneità significa sancire la fine della nostra capacità creativa, della nostra millenaria storia artistica e culturale d’eccellenza. Significa dire siamo stati grandi ma ora non lo siamo più. Per la prima volta nella storia repubblicana, con la presidenza di Sergio Mattarella, il Quirinale apre finalmente le sue sale all’arte contemporanea. È uno di quegli eventi che segnerà un’epoca. La mostra intitolata Da io a noi: la città senza confini, inaugurata il 24 ottobre, passerà alla storia come l’episodio che ha sdoganato il contemporaneo italiano dando la giusta dignità e il giusto onore a quegli artisti che con il loro lavoro testimoniano cartesianamente che questo è un paese ancora ricco di talento. Vedere in quel palazzo così antico, in quelle sale di bellezza classica, teatro di riti lontani dal vissuto comune, opere difficili, dure, a tratti violente, ma comunque vere, quotidiane, riconoscibili, significa accettare le sfide del presente, volersi confrontare con i problemi reali, aprirsi a linguaggi nuovi, a sperimentazioni, a soluzioni innovative.

Prima di questa mostra era come se le istituzioni, a cominciare proprio dal Quirinale, non credessero nelle capacità artistiche dei contemporanei. Era un modo forse per difendere il passato, l’immensità di opere come il Colosseo, San Pietro, la Fontana di Trevi e la grandiosità di maestri come Giotto, Caravaggio, Tintoretto o Michelangelo. Era semplicemente un errore. Una protezione superflua, frutto di ignoranza e mancanza di visione. I fasti del passato resteranno imperituri. Nelle ultime decadi non abbiamo avuto troppe occasioni per rallegrarci di interventi pubblici riusciti. Questo vale in generale e ancora di più nel piccolo mondo dell’arte contemporanea. Con Dario Franceschini però le cose sono oggettivamente cambiate. In questi anni di suo governo dei Beni Culturali le iniziative positive fatte a favore di questo settore sono state innumerevoli. Non a caso Da io a noi: la città senza confini è una mostra che nasce e viene strutturata al Mibac. Ma poi c’è voluta l’attenzione politica, la sensibilità culturale e la lungimiranza di Sergio Mattarella, il primo Presidente della Repubblica che se l’è sentita di mettere firma e faccia su un’operazione oggettivamente difficile come questa.

Del resto un ospite del Quirinale mentre entravamo nei saloni che accolgono la mostra, ignorando il mio mestiere, ha confessato candidamente: «Io questa roba non la capisco proprio». Ed è tipico, perché il contemporaneo è un genere complicato, usa linguaggi sofisticati, bisogna studiarlo per comprenderlo. Senza contare che i temi trattati non celebrano gesta epiche e gloriose non esaltano la grandiosità del potente di turno. Niente affatto. La città senza confini è una ricerca senza sconti che ci parla di periferie ed emarginazione di degrado e solitudine. È una ricerca che racconta la società, partendo da io per arrivare a noi sin dal titolo. Con una declinazione concettuale molto coerente. L’idea di Federica Galloni, mirabilmente trasformata in mostra da Anna Mattirolo, una tra le migliori curatrici che ha questo paese, porta nelle sale del Quirinale la forza dirompente di opere come Seconda chance. Un lavoro che il genio di Eugenio Tibaldi dedica al rapporto tra legalità, economia ed estetica e che ingloba il lavoro sui piccioni ”turisti” di Maurizio Cattelan. Come il lavoro di Alfredo Jaar che trova il modo di fare entrare a palazzo i gramsciani versi dedicati al ”vecchio mondo che sta morendo”. Così come Alberto Garutti, Diego Perrone, Alessandro Piangiamore, Grazia Toderi, Adrian Paci, Flavio Favelli e Lara Favetto e via di seguito tutti gli altri, senza esclusione alcuna, sono stati tutti capaci di trovare un modo originale ed efficace di raccontare le periferie, e i problemi che da esse derivano, senza stereotipi.

C’è tanta denuncia, anzi in alcune opere è come se si sentissero le grida che arrivano da quei luoghi così lontani da Palazzo. Ma è sempre costruttiva. Da io a noi è una collettiva che cerca valore in quelle aree che valore non sembrano avere. C’è il giusto vigore, la giusta rabbia, la giusta bruttezza. Elementi che rendono ai più incomprensibili questi percorsi artistici. La Venere di Botticelli del resto la si comprende anche senza studiare. Per l’arte contemporanea invece tocca applicarsi, conoscere artisti e movimenti per apprezzarne realmente i contenuti. Per tali ragioni occhi profani questa ”roba” non la capiscono affatto. Per questo la scelta rivoluzionaria di Sergio Mattarella rimarrà nella storia non solo artistica di questo paese.

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