Il nuovo Macro sta nascendo

Roma

Da mesi a Roma è in voga la tendenza di affibbiare etichette a Giorgio de Finis, l’uomo che esalta o spaventa l’art system capitolino. Prima squatter, ora centro-socialaro… Quali altri epiteti gli vedremo affiancati? L’impressione, certamente, errata, è che la sua figura si sia trasformata in uno spauracchio per la scena culturale romana, da colpire per colpire l’amministrazione pentastellata di cui sarebbe eventualmente espressione, una volta nominato direttore del Macro.

Un’altra impressione, questa certamente corretta, è che chi critica il suo progetto, forse non lo ha compreso a fondo. Su queste colonne abbiamo spesso difeso la sua idea di rivoluzionare il Macro sin dalle sue fondamenta. Un museo incastrato da troppo tempo tra l’oberante ombra dell’internazionale Maxxi (da non intaccare, per carità) e la gestione ottusa delle amministrazioni capitoline precedenti, sempre caratterizzate da una scarsa visione della cultura. Era ovvio che servisse una spinta per disincastrare il museo da questo groviglio. Serviva una formula nuova. Eccola: ridimensionamento del ruolo di Zetema, all’orizzonte il passaggio al Palaexpo, e alla direzione del museo un uomo nuovo, Giorgio de Finis. Nuovo perché da anni, con pochi soldi e tanto impegno, è riuscito a creare un laboratorio contemporaneo diffuso a Roma e non solo, ispirato a ideali libertari, coerentemente con la sua formazione, e in grado di lanciare innumerevoli artisti nella scena contemporanea. Ha invertito i paradigmi dell’estabilishment culturale della città di Roma e ne ha creati di nuovi e ha storicizzato questo suo percorso nel Maam, un’esperienza artistica tra le più innovative d’Europa. Ha fatto tutto ciò fregandosene dei giudizi altrui, ma comunque rispettando l’etica precostituita, di cui conosce benissimo i linguaggi pur non condividendoli.

Insomma, siamo fiduciosi che il nuovo equilibrio potrà portare un’ondata di novità al Macro, proiettarlo verso un ruolo di vero interprete del fermento contemporaneo romano. Un fermento che esiste, è palpabile, ma che necessita di essere incanalato in un grande progetto. Comunque, incuriositi da questa bizzarra idea di Bergamo di nominare de Finis direttore del Macro, siamo stati gli unici che si sono fatti una chiacchierata approfondita con lui, sintetizzata in questa intervista pubblicata sul numero di 110 di Inside Art. Ve la riproponiamo integralmente, tanto per schiarirci un po’ le idee..

IL MUSEO, D-ISTRUZIONI PER L’USO
Parla Giorgio de Finis, direttore in pectore del Macro. Il suo nome spaventa ed esalta l’ambiente. Ecco perché

Lo hanno definito ”direttore squatter”, hanno eretto barricate. Giorgio de Finis ancora non è stato nominato direttore del Macro, ma il solo pensiero ha già fatto tremare la scena contemporanea romana, e non solo. Le sue idee libertarie si scontrano con quelle tradizionali e le mettono in formaldeide. Mancano pochi passaggi istituzionali e la sua nomina a direttore, da parte dell’assessore alla Cultura di Roma Luca Bergamo, potrebbe diventare realtà, dando il via a un grande progetto di cambiamento. E chissà che non ci sia bisogno proprio di uno stravolgimento totale per rilanciare definitivamente il museo di arte contemporanea della Capitale.

Il tuo percorso artistico ha radici profonde. Si può dire che il Maam rappresenti una sintesi della tua ricerca e dei tuoi studi?
«Il Maam è l’isola che non c’è. Di sicuro questa ”scoperta” è il frutto del mio peregrinare nel mondo e tra le discipline. Ma rappresenta anche un punto di svolta, uno scarto. A un certo momento, per poter saltare, bisogna alleggerirsi del proprio bagaglio culturale e affidarsi all’immaginazione, abbandonare il terreno sicuro del già detto, lasciarsi alle spalle le colonne d’Ercole».

Tu nasci antropologo, ma hai lungamente frequentato l’architettura, la fotografia, il cinema e negli ultimi anni l’arte.
«L’antropologia si dice sia il percorso più lungo per tornare a casa. Sono un antropologo che via via si è dotato di nuovi strumenti per investigare e raccontare il proprio oggetto di studio… l’uomo e il suo habitat, che, non dimentichiamolo, dal 23 maggio del 2007, è definitivamente diventato la metropoli, col passaggio di quel Rubicone rappresentato dal 50% più uno della popolazione mondiale che vive in città. L’arte è l’ultima arrivata, è vero, ma è anche arrivata al momento giusto; quando non mi è bastato più capire le cose, ma ho sentito l’esigenza di provare anche a cambiarle».

Come ti definisci, visto il tuo zigzagare tra le discipline?
«Odio le barriere disciplinari, le definizioni strette e anche i ”mestieri”. Comunque per semplicità nel mio c.v. scrivo antropologo, artista e curatore indipendente. Considero artistici i miei dispositivi ”relazionali”, artistica la divergenza che introducono all’interno del sistema delle regole e delle istituzioni, e anche certi risultati (il Maam inteso come opera corale, come super-oggetto e non come collezione). Faccio il curatore quando mi occupo non del dispositivo in generale, ma del singolo contributo all’interno di questo».

Puoi spiegarci quali sono i principi cardine della tua visione dell’arte?
«L’arte caratterizza i sapiens fin dalla loro comparsa; nelle grotte di Lascaux le immagini erano un elemento dell’abitare. Considerare l’arte un elemento costitutivo della nostra umanità contribuisce a combattere quella rappresentazione caricaturale dell’essere umano ridotto alla sola ragione strumentale e alla convenienza, tutto teso a massimizzare gli utili e a ridurre gli sforzi. L’arte è un fare inutile e al tempo stesso necessario, è generosità e dispendio, ed è uno dei tratti che maggiormente caratterizza la nostra storia naturale. Per quanto la si voglia piegare alle logiche del profitto, facendone la celebrazione del superfluo e del lusso (o addirittura la metafora del potere finanziario come nelle parole del protagonista di Wall Street), l’arte rimarrà sempre un antidoto a questa riduzione dell’umano al calcolo, e si ribellerà a ogni tentativo teso a svuotarne il senso più profondo. L’arte è, e sarà sempre, un’istanza di libertà, una pratica divergente, capace di mostrarci il mondo con occhi nuovi». 

Oggi Giorgio de Finis è anche il capostipite, possiamo dire, di un movimento artistico che ha raccolto molti artisti lungo il percorso. Quale rapporto vi lega? E soprattutto su quali valori è fondata questa famiglia? 
«I miei sono progetti corali che hanno coinvolto decine, perfino centinaia di artisti (come nel caso del Maam). Dico corali e non collettivi, perché la collettività spesso comporta uno schiacciamento della singolarità e delle differenze, che sono invece le nostre risorse più potenti. Io amo i giardini della biodiversità, le barriere coralline. Naturalmente se è vero che i miei progetti possono accogliere tutt*, non tutt* sono disposti ad accogliere il mio invito a costruire una nuova ”cattedrale” (laica, beninteso) del comune. Questo crea una selezione naturale. Quella del Maam non è una famiglia, né una comunità o una tribù, ma un eterogeneo insieme di artisti che, nonostante le differenze, e io direi in ragione di tali differenze, hanno deciso di collaborare per fare il mondo un luogo più giusto, oltre che più bello».

Sulla stampa si è fatto più volte il tuo nome come possibile direttore del Macro, il museo di arte contemporanea del Comune di Roma. Non sei e neanche è chiaro se ci sarà un direttore, ma già c’è chi ti ha definito ”direttore squatter”. Che ne pensi?
«Appena nominato l’assessore alla cultura Luca Bergamo mi ha chiamato dicendosi interessato ad aiutare il Maam – che come è noto è un museo calato, e che protegge, una occupazione abitativa illegale… da qui l’attributo ”squatter”… Bergamo conosceva da tempo il progetto e mi aveva anche invitato a presentarlo al Palais des Beaux-Art di Bruxelles quando era segretario generale di Culture Action Europe. È stato il primo politico in carica che ha avuto il coraggio di varcare la soglia di Metropoliz e il primo a valorizzare questa esperienza unica nel suo genere; anzi, ha fatto molto di più, perché ha definito il Maam un modello cui ispirarsi per ripensare la crescita culturale della nostra città. Ha detto di voler fare tesoro di alcuni dei presupposti culturali, etici e politici che hanno animato l’esperienza quinquennale del Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz per il futuro di quello che lui chiama ”polo del contemporaneo”. Un museo, il Maam, lo dico per inciso, che non ha mai smesso di crescere in barba alla crisi che ha colpito Roma e il nostro Paese, perché non ha bisogno del denaro degli investitori, pubblici o privati che siano, ma solo della collaborazione di tutt*, di tutt* coloro che sono disposti a condividere i valori dell’altruismo, della generosità, del fare insieme».

Se toccasse a te indicare la via per il Macro quali mosse faresti? Quali mostre?
«Penso ci sia lo spazio per un progetto che possa coinvolgere centinaia di artisti, e discriminare tra quelli a cui si fa la mostra e quelli a cui non si fa (non si potrebbe, per ragioni di tempo, spazio e budget fare la mostra a tutti) sarebbe come mettere la sabbia nel motore di un dispositivo ad alta partecipazione. Questo naturalmente non vuol dire che l’arte non entra nel museo, ma solo che vi entra con una nuova formula, diversa della mostra».

Il Maam e il Macro sono realtà piuttosto distanti tra loro. Si possono conciliare i due spazi?
«Il Macro potrebbe essere un grande laboratorio cittadino dove si lavora alla creazione di nuovi virus che, com’è successo al Maam, hanno finito per contagiare altri luoghi della città».

Cosa rispondi a chi reputa impossibile importare il punto di vista ”periferico” del Maam?
«Che periferico è chi pensa che il Maam sia periferico. Forse dovrebbe riconsiderare il proprio posizionamento nell’universo, abbandonare la prospettiva tolemaica e considerare l’ipotesi di abbracciarne una copernicana. Perché se vero è che il Maam si trova in periferia, nel quadrante stellare di Tor Sapienza, e che è un museo povero e di risulta, proprio per il fatto di essere un luogo di frontiera, attraversato dalle grandi questioni del nostro tempo – l’emergenza abitativa, la precarietà della vita, le migrazioni, una crescita urbana a macchia di leopardo… e via discorrendo – è all’avanguardia. Periferici rischiano semmai di essere proprio i musei istituzionali, sempre in ritardo sul mondo che corre avanti».

Cosa potrebbe apprendere il Macro dal tuo Maam?
«A giocare al gioco del museo in modo diverso. Cesserebbe di essere un contenitore per diventare un’opera viva, un grande dispositivo relazionale, uno spazio del comune. Proveremmo a ripensare l’istituzione museale partendo dai suoi criteri costitutivi [dall’abc], facendone il luogo dove sperimentare un nuovo incontro tra gli artisti e la città, l’arte e la società. Una piazza, una casa comune. Insomma potrebbe diventare un museo ”reale”, nella definizione che ne ha dato Cesare Pietroiusti proprio al Maam, vale a dire un museo ospitale, residenziale (dove lo stare si sostituisce alla visita), utilizzabile, produttivo (in grado di produrre opere, e non solo di mostrarle, in primis il dispositivo stesso in quanto ”opera corale”), permeabile, leggero, polidisciplinare».

Il Macro è un museo nato per raccontare l’arte romana contemporanea dal XX secolo fino a oggi. Pensi sarebbe possibile un dialogo tra l’impostazione che hai dato al Maam e le gallerie romane per allargare il campo di indagine?
«Credo che si avrebbe la possibilità di raccontarla davvero l’arte romana contemporanea del XX secolo, perché a nessuno degli artisti che operano sul territorio sarebbe impedito di farlo. Un Macro che mutua dal Maam potrebbe essere luogo di una auto-mappatura degli spazi dedicati all’arte contemporanea della Capitale (musei, pubblici e privati, collezioni, atelier, accademie…), una grande stanza allestita come una sala-controllo che si alimenta delle informazioni che ciascuno, istituzione o singolo artista, vorrà portare, monitorando e connettendo le iniziative presenti in città… Anche le gallerie private sarebbero invitate a raccontare il loro operato, a spiegare le loro scelte e le loro strategie. Ma non sarebbero in nessun modo invitate a pagare la programmazione del museo, che, a mio avviso, deve tornare ad essere, uno spazio ”pubblico”».

La Galleria Nazionale grazie alla sua nuova direttrice è stata al centro non soltanto di importanti operazioni di restyling e riorganizzazione della collezione ma ha anche intrapreso rapporti di collaborazione con il Maxxi. Pensi che anche per il Macro sia importante costruire un dialogo con le altre realtà museali romane?
«Personalmente, trovo il progetto di Cristiana Collu per la Galleria Nazionale davvero molto importante. Le opere fanno sistema e il visitatore deve leggerle una in relazione con l’altra muovendosi nello spazio liberamente, un dispositivo che attiva i sensi insieme al pensiero, restituendo autonomia e capacità di giudizio a chi guarda. Bergamo ha sempre detto che il Macro figurerà all’interno di quello che il nuovo assessore ha chiamato ”polo del contemporaneo”, quindi in sinergia con Palazzo delle Esposizioni, lo spazio della Pelanda e il circuito delle biblioteche. Mi pare che il dialogo sia obbligatorio nel disegno all’interno di cui il Macro sembra integrarsi».

Luca Bergamo ha affermato qualche giorno fa «il mio desiderio è che i musei e i siti archeologici della città abbiano tutti ingresso gratuito». Dato il concept alla base del Maam, ritieni che questa sia la strada giusta per sensibilizzare i cittadini all’arte?
«Mi pare ovvio che se i beni sono pubblici la loro fruizione debba essere favorita in ogni modo. La questione non è tanto avvicinare i cittadini all’arte, quanto piuttosto di avvicinare l’arte ai cittadini. Sembra la stessa cosa, ma non è così. Una cosa ha a che vedere con la ricerca di nuovi pubblici (questione di cui si occupa il marketing della cultura, disciplina preoccupata di mettere a profitto il patrimonio, concependo il museo come un’impresa), o con l’idea che si debba sostenere una fetta di mercato (quello dell’arte, questione che riguarda una categoria professionale). L’altra con la ”crescita culturale” e il diritto alla bellezza per tutt*».

Sarebbe una mossa coraggiosa da parte dell’assessore capitolino quella di selezionarti come direttore del Macro. Cosa succederebbe se scelte così azzardate fossero applicate ad altri settori della cultura?
«”Per essere felici bisogna essere coraggiosi”, ci ricorda un’opera di Davide Dormino al Maam (anche se non dovremmo dimenticarci che si tratta di una ghigliottina!). Sono convinto, e mi pare che Bergamo sia della stessa opinione visto le posizioni che ha preso in tante polemiche recenti, che la politica e l’amministrazione debbano tornare a occuparsi della felicità dei cittadini, e per fare questo, in un’epoca dominata dall’egoismo e dalla violenza neo-liberista, non si può che essere coraggiosi. Coraggiosi e fantasiosi, cioè capaci di immaginare che le cose possano essere diverse, e capaci di sostenere la reazione che sarà messa in campo da chi ci guadagna a tenerle come sono. Nel volume Rome. Nome plurale di città (che ho curato con Fabio Benincasa per i tipi Bordeaux) ho provato a dire che Roma ha bisogno, per uscire dalla crisi drammatica che la attanaglia, di outsider e sognatori. Reinventare la città, ripensarla, anche in maniera radicale, non è un vezzo, ma un’urgenza. Direi, senza temere di essere tacciato per catastrofista, una questione di vita o di morte».

Parliamo di soldi, come risollevare secondo te le sorti anche finanziarie di un museo che è stato più volte sul punto di chiudere i battenti?
«Non penso che sarò chiamato a fare il manager. Per il mio progetto basta aprire la porta. Agli artisti e ai cittadini».

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