Basquiat, New York

Ha inaugurato al Chiostro del Bramante la tappa romana della mostra Jean-Michel Basquiat. New York city, curata da Gianni Mercurio con la collaborazione di Mirella Panepinto, che espone fino al 2 luglio circa 140 opere, tra grandi graffiti, disegni, bozzetti, ma anche foto e ceramiche, provenienti dalla Mugrabi Collection. Sono lavori prodotti negli ultimi anni di vita del celebre artista newyorkese con origini haitiane, realizzati tra il 1980 e il 1987, un anno prima della sua morte, avvenuta nell’appartamento di Great Jones Street a causa di una combinazione fatale di sostanze stupefacenti all’età di 27 anni.

L’animo inquieto lo aveva sempre avuto, fuggiva spesso da casa ed era molto ambizioso; dieci anni prima della sua morte aveva detto al padre: «Un giorno diventerò molto, molto famoso». Oggi, dinanzi a questa grande mostra che lo celebra, possiamo dire che ci sia riuscito, ma non certo con facilità. Infatti, come dice Mercurio, nonostante a diciannove anni fosse già considerato un fenomeno, per il giovane Samo, come si firmava nei suoi graffiti lasciati sui muri della città di New York, perseguire la sua ambizione era diventato un vero e proprio lavoro.

E se pure il successo all’interno del mercato dell’arte sia giunto presto, facendo di Basquiat il primo artista afroamericano ad affermarsi ufficialmente nel mercato dell’arte e uno dei pochi riuscito, insieme a Keith Haring, a portare l’arte di strada e il graffito all’interno delle gallerie e delle case dei collezionisti, è stata in verità questa stessa ascesa a bruciarlo. Fatto a pezzi non solo da un’irrequietezza che lo faceva tendere all’autodistruzine, ma dai meccanismi stessi del mercato, che hanno trasformato in merce di scambio ”l’artista nero che voleva essere solo un artista famoso e non un artista nero famoso”, come spesso ripeteva.

Forte, in questo senso, è il legame con la città di New York, da sempre segnata nella sua storia dalla schiavitù e dalla diaspora, e che non poteva non legare la sua arte, con un uso dello stile narrativo tipico dei fumetti e dei cartoon di cui la sua generazione si nutriva, alle problematiche delle differenze razziali che lui stesso aveva vissuto sulla sua pelle. In quella città così ricca e piena di possibilità e di muri da riempire, ma che lo metteva ai margini per il suo colore. Sono questi, dunque, i temi che la mostra ripercorre in parallelo: da un lato il rapporto di Basquiat con New York, dall’altro la sua tormentata e intensa biografia. A intersecarli, qua e là, gli incontri e le collaborazioni con altri artisti, come Diaz e Andy Warhol.

Unico comune denominatore sicuramente la cultura black, che pervadeva i suoi interventi fumenttistici con la contaminazione della musica jazz, hip-hop, rap, portandolo a sperimentare nuovi linguaggi e la loro forza visiva. La cultura black che, per quanto abbia sue peculiarità, non la rende diversa da quella di un popolo bianco. «Basquiat – dice il curatore – non traccia una linea di demarcazione netta tra il mondo dei bianchi e quello dei neri: mostrandoci personaggi, oggetti e situazioni a noi familiari dimostra quanto forte sia la contaminazione tra questi due mondi, quanta negritudine ci sia in noi».

Nonostante il primitivismo dei suoi lavori che lo portarono ad essere ribattezzato il Picasso nero, e nonostante l’espressività tribale della quale cerca di riappropriarsi dopo l’opera delle avanguardie che, a suo dire, non avevano colto la forza espressiva dell’arte nera, la sua è in realtà tutt’altro che un’arte delle origini, ma un arte del presente, che nelle sue origini ha solo ben messo radice. «La sua – conferma il curatore – è dunque un’arte strettamente integrata e connessa con la società contemporanea e con le sue espressioni che si stratificano nei suoi lavori».

La sua è un’arte epica, quasi mitologica, eppure nel contempo così vicina e viva. Allo stesso modo, non appare dopotutto meno vivo o troppo lontano quel mito africano del Re della Luna, cui si deve l’origine del mondo e che ha ispirato molti dei lavori di Basquiat. Anche Jean-Michel, randagio di strada, è diventato poi a suo modo Re. Re SAMO. ”SAMO come nuova forma d’arte, […] SAMO come la fine dei confini dell’arte”, come si legge in una sua poesia. Ed è facilmente immaginabile che, insieme ad essi, fossero anche altri i confini di cui si auspicava la fine.

Fino al 2 luglio; Chiostro del Bramante, via Arco della pace 5, Roma; info: chiostrodelbramante.it

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