Please come Back

Che cosa vogliamo torni indietro nelle nostre vite dal paradiso perduto dell’età moderna? È questa la domanda che la mostra Please come Back, curata da Hou Hanru e Luigia Lonardelli e allestita nella Galleria 5 del Museo Maxxi di Roma, vuole porre ai suoi visitatori. Invitandoli a riflettere sul tema della reclusione in un modo ben più ampio, ingombrante e profondo di quanto si penserebbe. E lo fa attraverso le cinquanta opere di AES+F, Jananne Al-Ani, Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Rossella Biscotti, Mohamed Bourouissa, Chen Chieh-Jen, Simon Denny, Rä di Martino, Harun Farocki, Omer Fast, Claire Fontaine, Carlos Garaicoa, Dora García, Jenny Holzer, Gülsün Karamustafa, Rem Koolhaas, H.H. Lim, Lin Yilin, Jill Magid, Trevor Paglen, Berna Reale, Shen Ruijun, Mikhael Subotzky, Superstudio, Zhang Yue. Ventisei artisti che si chiedono se il mondo e la prigione non siano divenuti l’uno metafora dell’altro, che ci si trovi al di qua o al di là delle mura e delle sbarre. L’opera stessa del collettivo Claire Fontaine, che dà il titolo alla mostra, nasceva proprio con l’idea di interrogare il pubblico sulla società come spazio di reclusione. Quella che può sembrare una nostalgica richiesta di libertà o di ricongiunzione con i propri familiari oltre lo spazio disciplinare – Per favore torna indietro – si fa infatti anche interpretazione e riflessione sul problema non solo dell’incarcerazione e dell’esclusione, ma anche della sorveglianza e del controllo sociale. Così si può volere che torni a casa un familiare recluso, volere che torni un parente a far visita in carcere, volere che ci venga tornata indietro la libertà. Anche quando non sono delle sbarre a privarcene.

Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali, l’avvento dei social network, l’utilizzo dei Big Data, hanno progressivamente e inesorabilmente cambiato la nostra società che assiste al crollo delle filosofie di condivisione sociale e urbana e all’instaurarsi di nuovi regimi che, in nome della sicurezza, ci spogliano, con il nostro consenso, di ogni spazio intimo e personale. Il mondo, allora, è come una prigione? Ecco l’altra domanda che gli artisti vogliono porre alla società, provando nel contempo a suggerire delle risposte. Se la prigione è metafora del mondo contemporaneo e quest’ultimo è a sua volta metafora della prigionia, ecco che si assottiglia incredibilmente la differenza e la distanza tra il trovarsi dentro e fuori da un carcere, e la stessa libertà finisce col non essere poi così “libera”: ammanettata da un mondo contemporaneo ipertecnologico, sempre connesso e condiviso ed in questo modo, sempre più controllato e controllabile. A suggerire l’idea di una prigione che persiste anche al di là delle sbarre che da sempre l’hanno iconograficamente raffigurata è la stessa suddivisione del percorso espositivo.

La mostra, infatti, si compone di tre sezioni: Dietro le mura, Fuori dalle mura e Oltre i muri. Della prima sezione sono protagonisti artisti che hanno fatto esperienza diretta della prigione o perché sono stati reclusi o perché è stato il soggetto del proprio lavoro, come nel caso di Berna Reale, Harun Farocki e Gianfranco Baruchello. Nella seconda sezione, invece, l’indagine artistica si sposta «fuori dalle mura», cercando di indagare e riflettere su tutte le forme di prigionia che non possiamo vedere, e che forse solo qualche volta riusciamo ad avvertire. Come nel lavoro di Lin Yilin, che attraverso una performance testa la percezione e la reazione dei cittadini di Haikou e Parigi riproducendo una scena di privazione della libertà. Tema, questo, che viene ulteriormente approfondito, insieme a quello dei regimi di sorveglianza, nella terza sezione – Oltre i muri. Quella che il Presidente Giovanna Melandri ha definito la mostra più “politica” che il Maxxi abbia ospitato, vuole liberare la testa e le emozioni attraverso la critica sociale e la provocazione intellettuale. Perché «la guerra è pace, la libertà è schiavitù», come scrive George Orwell. A rammentarlo, prima e dopo la visita, invitando a sedere e rifletterci sù, ci pensa l’installazione The Cage, the bench and the luggage, che si staglia imponente nella hall del museo. Una valigia in pesante alluminio, imprigionata da una gabbia di metallo: ad unire lo spazio al di qua e al di là delle sbarre, una lunga panchina. Un modo per ripensare alla nostra libertà, agli spazi in cui possiamo trovarla e a quelli che sembrano darcela e invece ci soffocano.

Forse, anche un modo per ripensare l’Arte, perché in fondo anch’essa non esula dalla prigionia. Quella stessa installazione è fuori, libera dal percorso espositivo, eppure è chiusa dentro: ancora una volta metafora del mondo e di tutti quegli spazi – anche museali – che custodiscono tesori e a volte invece di proteggerli li costringono alla reclusione. La mostra è accompagnata da una serie di incontri, eventi, appuntamenti, che ne approfondiscono i temi attraverso rassegne cinematografiche, workshop e reading.

Fino al 21 maggio 2017, Info: www.fondazionamaxxi.it

Articoli correlati