Le città di Giorgio Ortona sono fantasmi dai tanti occhi, finestre di palazzi come giganti che dominano il mondo in silenzio, con la profondità tipica del bianco, di un perfetto non finito, come quel capolavoro che è l’Adorazione dei Magi di Leonardo, il grande incompiuto della storia dell’arte. Ortona dipinge ciò che sente, prima di ciò che vede: le cromie ingessate nel colore ad olio evocano un’attesa ragionata, non improvvisata, un tempo dilatato e sospeso che sottintende uno stato d’animo a tratti sofferente ed angoscioso, al contempo placido, una ferma inquietudine come un’istantanea catturata con il pennello. Nelle sue vedute urbane la presenza umana è un’assenza, la figura compare solo a parte, in dipinti differenti seppur accomunati da una stessa attitudine: è come se l’uomo e la città non dovessero mai incontrarsi, come se viaggiassero su rette parallele, ogni soggetto appare quindi a suo modo onirico e visionario, anche se formalmente rappresentativo di un fedele racconto del reale. Ortona invade il Macro Testaccio con la sua Nomi, cose, città, a cura di Gabriele Simongini, visibile fino al 15 gennaio prossimo: il titolo richiama l’immediatezza dei soggetti, che subito rivelano il pretesto per rappresentare una complessità scarna, specchio di una società solo apparentemente solida. Nei dipinti di Ortona emerge l’importanza del disegno, come scheletro e fondamenta dell’opera, come simbolo di un’assolutezza che è chiarezza formale e concettuale, pernio della sua pittura e di una quanto mai autentica onestà intellettuale. La mostra è realizzata con il sostegno di M77 Gallery, Milano.