C’è tempo fino al 7 maggio per visitare l’interessantissima mostra a Palazzo Braschi dedicata ad Artemisia Gentileschi, dal titolo Artemisia Gentileschi e il suo tempo. Un percorso espositivo molto completo, nutrito e descrittivio di tutte le fasi evolutive della ricerca artistica di Artemisia, messa, inoltre, a confronto con i suoi contemporanei. La mostra è ben curata e spiegata, tolto il fatto che Palazzo Braschi, come molti musei capitolini, purtroppo non è attrezzato sotto il profilo digitale per rendere fruibili tutti i contenuti attraverso un’apposita app o semplicemente con una connessione wi-fi adatta a navigare con facilità e velocità. Ma a parte questo il viaggio proposto nella prima metà del Seicento segue, con precisione, le tracce percorse da una grande donna, antesignana dell’affermazione del talento femminile. Un talento e una tecnica tali da avere fatto affermare al padre Orazio, importante pittore anche lui, che ”questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”.
Un temperamento, quello di Artemisia, che attirò le attenzioni del pittore Agostino Tassi, che nel 1611 (in quegli anni era impegnato insieme a Orazio Gentileschi nella decorazione delle volte del Casino delle Muse di Palazzo Rospigliosi a Roma), mentre le dava lezioni di prospettiva, violentò la diciassettenne collega. Artemisia dovette sopportare le umiliazioni e il dramma di un lungo processo, che la segnò nella personalità. Quell’evento, infatti, impresse una significativa caratterizzazione nel lavoro di Artemisia, che riversò in molte delle sue opere un simbolismo legato all’autodeterminazione femminile a scapito di figure maschili sempre presentate come rappresentative di prevaricazione e opportunismo. Questa particolarità è illustrata bene dalla mostra, nel corso della quale è possibile ammirare alcuni dei principali capolavori di Artemisia, come Susanna e i vecchioni o Giuditta e Oloferne.
Scandite all’interno di un itinerario cronologico, le successive opere di Artemisia sono messe in relazione con quelle dei pittori attivi in quegli anni d’oro a Roma: Guido Cagnacci, Simon Vouet, Giovanni Baglione, fonte d’ispirazione rispetto ai quali la pittrice aggiorna, di volta in volta, il suo stile proteiforme e mutevole.
A concludere, i dipinti eseguiti nel periodo napoletano, quando ormai Artemisia può contare su una sua bottega e sulla protezione del nobile Don Antonio Ruffo (1610-1678), lavori in cui, grazie ai confronti, sarà possibile capire il suo rapporto professionale coi colleghi partenopei: da Jusepe de Ribera e Francesco Guarino a Massimo Stanzione, Onofrio Palumbo e Bernardo Cavallino; tele come la splendida Annunciazione del 1630 – presente anch’essa in mostra – paradigmatiche di questa fiorente contaminazione, scambio e confronto.