Autobiografia erotica

Americana del profondo Sud, Logan White è una fotografa che interpreta ricordi, traumi, rivelazioni e relazioni attraverso il linguaggio del nudo. I suoi scatti, ricchi di evocazioni gotiche e scene rubate all’infanzia, nascono da suggestioni letterarie e dalla ricerca della libertà priva di qualsiasi pregiudizio e condizionamento, tra realtà e immaginazione.

Nelle tue fotografie, l’elemento autobiografico è molto forte. La sensazione è che i tuoi lavori siano decisamente radicati nella tua storia personale, è così?
«La forma femminile è come uno specchio. Ho iniziato con gli autoritratti e poi ho sostituito al mio corpo, altri corpi al posto mio come attori in un film. La mia è una famiglia matriarcale, America del profondo sud, e questo ha influenzato il mio lavoro. Le dinamiche del potere femminile e il gotico del Sud caratterizzano il mio lavoro come l’attenzione alla relazione tra donne. I miei lavori migliori nascono da un legame tra me e il soggetto». 

Sei interessata alla differenza tra semplice pornografia e il ruolo della pornografia nell’arte. Il tuo lavoro ha una forte connotazione sessuale.
«Roland Barthes nel suo libro Camera Lucida ha detto: la pornografia riguarda solo una cosa, e quella cosa è il sesso. Non ho una definizione precisa per il mio lavoro, forse uso il corpo per realizzare lavori che parlano della mente, e per creare qualcosa di bello. Certe volte il porno ti fa pensare al di là del sesso, ma solo perché il feticismo, il potere, il desiderio, ti attraggono. Desidero ciò che desidero veramente, o è solo fantasia? Poi entra in gioco la bellezza, è la bellezza che separa il porno dall’arte? La luce, forse? Posso eccitarmi per un’opera d’arte in un museo o per qualcosa di astratto come il colore. Mi sono masturbata con i muri dipinti di colore diverso, poi ne ho scelto uno che mi eccitava di più, per dipingere la stanza. Potremmo definirlo color porn?»

Qual è la più grande ispirazione che hai trovato in Araki, uno dei tuoi preferiti, e cosa hai pensato quando l’hai scoperto per la prima volta?
«Ho iniziato a scattare nel 1997 e quando ho scoperto Araki probabilmente era il 2000. Lui è tra gli artisti che ammiro, mi piace l’ entusiasmo che i suoi soggetti hanno verso di lui, e lui verso i suoi soggetti. Ormai qualsiasi cosa fotografa, dal nudo, ai fiori, al suo gatto, fa pensare al sesso e alla morte».

Il tuo interesse per il nudo è nato anche dalla passione per Araki?
«No, è nato molto prima di conoscere Araki. I primi scatti risalgono a quando avevo 15 anni e fotografai nel cortile di casa una mia amica nuda con le ali da fatina. Raccontarci storie fantastiche ci faceva sentire libere. Ho iniziato a scattare autoritratti in quel periodo, la cosa mi procurò un sacco di problemi al tempo, perché mi misi a sviluppare le foto nella camera oscura che della scuola. Mi sembrò ridicolo che le persone si agitassero così tanto per questa cosa. Sentivo di poter esprimere molto di più con il corpo, così mi bloccai. Se penso a una figura a cui mi sono ispirata per andare avanti, mi viene in mente Francesca Woodman».

Nel 2013, raggruppi alcuni scatti realizzati durante un gioco telefonico con uno sconosciuto nella mostra Sext, che apri al pubblico per una sola notte. Hai descritto quell’esperienza come «l’esplorazione della sessualità femminile e l’uso della tecnologia e dei linguaggi visivi per descrivere il desiderio». Cosa hai scoperto in quell’occasione?
«Ho scoperto che la sessualità di una donna e l’articolazione del suo desiderio è complessa, maniacale e incredibilmente creativa. Ero affascinata dallo scambio linguistico che nutriva le immagini, dato che io e il mio partner eravamo completamente estranei. Con la maschera dell’anonimato, potevo riflettere su me stessa e giocare con lo sguardo, rendendomi conto che non era femminile o maschile, ma uno sguardo primitivo e con mille sfaccettature della personalità, sia dominanti che remissive. Mi sono immedesimata nel ruolo dell’uomo fino a desiderare il mio stesso corpo». 

A cosa stai lavorando al momento?
«Ho un po’ di progetti in corso, uno in particolare, intitolato The Weeping Rose, che ho iniziato nel 2014. La serie parla di dolore, sofferenza e bellezza, sono ritratti che ho scattato mentre parlavo alle protagoniste di diversi traumi, relazioni fallite, stupri, la morte di un parente. Ho pensato molto all’estetica della sofferenza e a come la cultura la impacchetta e la vende al mainstream. Ho tenuto conto di immagini e simboli universalmente utilizzati, come le rose, i cigni e i cimiteri. Il titolo del progetto deriva da un’immagine della storia dell’arte tra le più commercialmente riprodotte, The Weeping Rose di Vladimir Tretchikoff, uno dei più famosi artisti commerciali di tutti i tempi. L’idea mi è venuta durante uno shooting all’Università di Santa Barbara, quando un adolescente che stava partecipando allo shooting mi parlò delle “confraternite di troie che lo avevano rifiutato”. Inoltre, sto esplorando una nuova tematica riguardante la disabilità e il nudo femminile».