Arte e industria, una storia

Dagli scaffali dei supermercati ai negozi di abbigliamento passando tra le fila di qualche bancarella, ormai siamo sempre più investiti da prodotti dai colori e le confezioni accattivanti, che ci attirano e seducono nella loro estetica perfetta. Il marketing gioca un ruolo fondamentale in questo, ma non è sempre solo una questione di ”saper vendere”. In certi casi è proprio il prodotto in sé ad avere valore maggiore rispetto ad altri, in virtù del progetto che lo ha portato alla sua realizzazione. Nella storia dell’arte il rapporto tra artista e azienda è iniziato nel più brusco dei modi. Per concetti che permangono tutt’oggi l’arte ha una accezione di origine romantica legata all’idea di artista geniale e fuori dagli schemi. Contrapposta all’idea di arte è stata l’idea di economia, effimera e legata al profitto. Di conseguenza le aziende e l’industrializzazione sorte nell’Ottocento sono state vissute come elementi di un altro mondo, rispetto all’ambiente artistico e letterario del tempo.

In questo contesto si muovono le idee di Pugin e di Ruskin e creano le basi per il pensiero che sta dietro alle Art and Craft di Morris. L’arte di Rossetti con i Preraffaelliti e l’amore verso un lavoro manuale sono alle basi di questo movimento. Mentre in Inghilterra si costruiscono grigie industrie e palazzi fatiscenti per gli operai, gli artisti si rifugiano nell’idea di un passato migliore e idilliaco. Il pensiero che adottano personaggi come Morris vede il Medioevo come un’epoca felice e positiva: le aggregazioni nelle Arti, la vita comunale e il legame con la città sono l’opposto di quello che hanno davanti agli occhi questi artisti. Il paradosso tra arte e industria ha il seme in quel movimento. Da un lato Morris rifiuta e aborra l’industrializzazione, dall’altro getta le basi per i prodotti identici e il design moderno. I materiali nuovi che porta l’industria, il tipo di processo con cui riescono a produrre un pezzo in maniera seriale ed efficace porta alle produzioni industriali e pone le basi del Novecento industriale.

Era il 1907 quando l’industria tedesca AEG, società generale di elettricità, chiama l’architetto tedesco Peter Behrens a lavorare per lei. Dal logo dell’azienda a le linee dei prodotti che commercializzano tutto è sotto la sua gestione. La storia di questa disciplina si muove e continua nel tempo per approdare a Weimar, nel 1919. In primis Gropius e poi tutti gli artisti che insegnano o studiano alla Bauhaus lavorano sui nuovi concetti di arte e tecnica. I laboratori e la didattica sono sullo stesso piano. Gli uomini e le poche donne ammesse si trovano a studiare e applicare questi studi negli oggetti d’uso comune. Il design fonde assieme il pensiero e l’azione di questi artisti, l’industria li riprodurrà in serie. Dopo Weimar e Dessau la Bauhaus si spegne a Berlino nel 1933, sotto le pressioni del nuovo governo. Gli artisti all’interno della scuola o che vi hanno lavorato hanno poche possibilità sotto la dittatura nazista.

Nel secondo dopo guerra il punto nevralgico è New York, la bella e colta Parigi potrà riprendersi dagli attacchi e riallacciare contatti con il mondo culturale, ma è troppo tardi, ha perso il trono. Nelle case arrivano televisione e frigorifero, le donne comprano lo smalto e tutti, compreso Babbo Natale, fumano Lucky Strike. Nel Nuovo Mondo i bombardamenti arrivano dalla pubblicità e a partire dagli anni Venti sono sviluppate sempre più dalle grandi industrie statunitensi. Nascono in questo periodo le prime agenzie specializzate. Non si tratta di un bel colore, una rima facile che rimane nella testa, ma di provocare nel consumatore un desiderio, un bisogno di quel bene. L’immagine suscita da subito un certo tipo di sensazioni nel compratore: il gorgogliare della Coca-Cola in una rovente giornata estiva ne è un ottimo esempio. Sempre più spesso prodotti e marchi vengono riconosciuti, sfruttati e consumati dalle persone come facessero parte delle loro vite dall’inizio dei tempi. È il pop bellezza. L’accezione del termine in italiano ha assunto sfumature negative, mentre negli Stati Uniti indicava semplicemente un prodotto di consumo, riconosciuto e riconoscibile. La pubblicità restituisce l’immagine del reale, così come vuole fare la Pop Art in quegli stessi anni. Warhol, Rosenquist e Wesselmann sono tutti artisti che non vogliono parlare del reale ma ricrearne un’immagine e rubano dalla pubblicità non solo l’estetica ma anche la stessa tecnica, dalla serigrafia di Warhol alla finta texture dei fumetti di Lichtenstein.

È anche per questi sentieri quindi che l’arte si è sempre di più avvicinanta a un’idea di vendibilità offrendo il fianco a un sistema economico oramai completamente integrato nel sistema dell’arte. Ma in realtà l’economia serve all’arte come la stessa serve all’industria. La cultura e i prodotti che possono nascere da imprese che hanno legami con l’ambiente artistico possono portare a oggetti ”migliori”, che siano esteticamente o culturalmente più interessanti e innovativi. Sono sempre più frequenti, a tal proposito, i casi di limited edition: l’industria si rivolge a uno specifico artista per la creazione di opere di più alto valore a tiratura limitata.

Non si tratta di un colpo di genio avuto da qualche manager negli ultimi anni; un tipo di collaborazione simile è antica quanto la storia dell’arte. Da un lato il committente richiedeva un’opera con compenso e dall’alto l’artista rispondeva con un bel ritratto vicino al cagnolino. Allo stesso tempo l’idea stessa di riproduzione seriale non è lontana a meccanismi artistici presenti nella storia dell’arte. Tra i più noti artisti che riprendevano lo stesso soggetto più e più volte c’è Caravaggio. Il meccanismo è chiaro: ripetere il protagonista per più interessati. Nel Novecento le copie d’autore sono triplicate. DelI’Impero delle Luci di Magritte si contano 17 copie, di dimensioni differenti. Uno dei protagonisti in questo ambito era Manzoni, con le sue uova con impronta o le note Merda d’artista.

Al giorno d’oggi le collaborazioni arte-industria sono molto più strutturate e dedicate a un solo prodotto o linea all’interno dell’azienda. Elemento comune ai progetti più recenti è l’impiego da parte dell’industria di artisti contemporanei molto vicini alle immagini della cultura di massa. È il caso del lavoro fatto da Jeff Koons per Google per la cover dei cellulari Nexus 5X e Nexus 6P. Non si tratta solo di un ritorno economico per l’azienda e l’artista, ma di un nuovo tipo di conoscenze e d’idee che Koons ha messo a disposizione per la creazione di questi prodotti. Nel 2004 lo stesso Koons aveva creato, richiamando le forme piene dei suoi celebri Baloon, una serie limitata per l’azienda vinicola Dom Pérignon. In quel caso le figure in oro o viola si stagliavano sulla confezione a fondo nero della celebre bottiglia.

Nel 2015 è stata la volta del progetto Frisk Art Project presentato e portato avanti dall’artista giapponese Takashi Murakami, dove gli emblemi della cultura di massa del suo paese s’incontrano con il prodotto dolciario dell’azienda Frisk. Un’altra artista che si è prestata a firmare alcune linee personali, questa volta per la Louise Vuitton, è Yayoi Kusama e siamo nel 2012. Ecco che le borse e l’abbigliamento del celebre negozio di moda si tingono di pois, simbolo della sua arte, con forti contrasti e giochi di colori tra il nero e il giallo, il rosso e il bianco.

Ma dove finisce l’arte e comincia l’industria non è certo facile definirlo così come giudicare un lavoro riuscito o meno in questo rapporto a due. E forse sarebbe giusto invece immaginare il tutto come una grande e aggrazziata danza dove i due ballerini stiano ben attenti a non acciccarsi i piedi continuando a volteggiare. Certo è che se questo viene a mancare, qualcosa si è perso per la strada. Il problema di fondo allora di queste collaborazioni è proprio cosa percepisce chi le acquista. Se parliamo di artisti che sono stati in grado di creare, nel cliente, non il semplice desiderio per un oggetto di consumo, ma curiosità per un elemento che riconoscono anche come prodotto artistico.

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