Sette Stagioni dello Spirito

7_Terra dell’ultimo cielo s’intitola l’ultimo capitolo del ciclo napoletano di Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, una lunga narrazione che ha attraversato dal 2013 gli strati del tessuto urbano e umano della città partenopea. Allestita all’interno dell’ex Ospedale Militare in via Santa Lucia a Monte, nel cuore del centro storico, l’opera assume gli ormai distintivi caratteri di installazione ambientale, contraddistinta da un ingresso dedalico che si fa metafora di una vita incerta e inquieta tanto quanto l’imprevedibile pavimento sabbioso che caratterizza gli spazi. Il percorso, nella sua simbolica direzione ascensionale, sembra obbligato da rampe di scale polverose, sbarre laterali, piattaforme di legno, passaggi non tanto segreti, porte chiuse o murate, tranne l’ultima, quella dell’ultimo piano. Una porta da aprire, una soglia che bisogna dimostrare di voler attraversare compiendo una scelta che degli oblò impolverati provano a suggerire. Quello che appare come l’arrivo di un lungo viaggio, la destinazione ultima, si presenta come uno spazio connotato da una forte carica poetica e da profondità metaforiche: il fondo del paradiso abitato da sabbia e vita, da tre alberelli giovani ma forti, intorno ai quali un corteo di canarini variopinti svolge le proprie funzioni vitali fino a quando l’intrusione dello spettatore solitario non li costringe a cercare nuovi ripari; un altare spoglio veglia silenzioso sull’ambiente sforzandosi di nascondere alle sue spalle un’ultima visione, forse la più importante e perciò da cercare, filtrata da un pannello di vetro che comunque rivela quello che appare come un ambiente familiare, arredato, vissuto, il cui ritmo ordinato è immediatamente fratturato da una pavimentazione vitrea completamente distrutta e frammentata. Il paradiso è la normalità instabile, sembra suggerirci l’opera, è un letto fatto, armadi chiusi probabilmente colmi, sedie composte intorno a un tavolo. È l’approdo a una condizione dantesca, l’incapacità di raggiungere e rimanere tra le vette più alte dei cieli, l’esigenza di riproiettarsi in una dimensione terrena con una rinnovata consapevolezza. E il ritorno implica un ri-attraversamento che però ora impone degli interrogativi.

Sette Stagioni dello Spirito è stata raccontata come un’indagine sui limiti del bene e del male nell’uomo, un viaggio spirituale, e indubbiamente lo è, ma la conclusione a cui si è giunti riguarda prima di tutto un’intromissione fisica tra le maglie sporche e abbandonate di una città meravigliosamente dannata, dove “i barometri non segnano più nessun grado, le bussole impazziscono”, un posto che è stato teatro ed attore fondamentale di una drammaturgia visiva che Tosatti ha scritto da quando è arrivato a Napoli, scortato da Santa Teresa d’Avila e dal suo “Castello Interiore”. Il progetto è segnato da quella che i teorici dell’arte contemporanea definirebbero site-specificity, che qui ha trovato espressione apicale, una sorta di patto tormentato tra una linea estetica e un contesto preciso, denso di storia e di storie che inevitabilmente hanno deviato il corso dell’impresa realizzata dall’artista romano. La sua grammatica formale ricorrente è stato il mezzo attraverso cui si è concretizzata la proiezione di un’esplorazione interiore che ha tatuato i luoghi in cui è stata ospitata e da cui ha ricevuto impulsi, in un autentico processo osmotico. L’integrazione tra opere e contesto è stata trainante e addirittura ha trovato una centralità metodologica in 6_Miracolo, un’azione più che un’installazione, in cui bambini, adulti e visitatori d’ogni sorta hanno partecipato alla “curatela” di un edificio che non presentava alcun tratto di monumentalità o di prestigio storico, ma che esibiva le cicatrici di una storia fatta di lavoro e di violenza, dove il miracolo avviene attraverso la cooperazione e le mani sporche di chi ha deciso di prendervi parte. Un rapporto, quello con le realtà più difficili della città di Napoli, che è stato protagonista sin dalla prima tappa del progetto, 1_La peste, un intervento che ha riaperto la chiesa dei SS. Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, chiusa dalla Seconda Guerra Mondiale, e che ha centralizzato la condizione precaria di una società malata che però può essere in grado di trovare conforto tra le braccia ampie dell’arte, delicate come la cera che per settimane ha ricoperto il portale d’ingresso, incredibilmente risparmiato dalle pallonate e dal vigore spinto della strada di uno dei quartieri più vivaci e problematici della città. Tosatti ha proseguito nel segno della riapertura di edifici completamente dimenticati e nel caso di 2_Estate (progetto vincitore del Talent Prize 2014) ha voluto farlo accentrandosi e catalizzando l’attenzione su un luogo segnato da una storia identitaria forte. L’ex Anagrafe Comunale di Piazza Dante, la prima in Italia, diventa presto lo spazio prescelto per rimuginare su uno spirito tutto italiano di lassismo e di inazione, insegna di un male larvato nell’uomo contemporaneo. In una dimensione decisamente monumentale prende forma il processo di riattivazione di significati e di energie che l’artista ha concepito ricreando con maniacale precisione tutti gli ambienti e le relative funzionalità di quello che è ancora un archivio dell’identità collettiva napoletana. Un’opera che con delle sottigliezze rivela un carattere infernale a cui fa giusto seguito la terza installazione, 3_Lucifero, allestita presso gli ex Magazzini Generali del Porto di Napoli. Si tratta innanzitutto di una profonda riflessione sulla reale collocazione del male nei piani di Dio, che parte da una base teologica, ma evolve presto travalicando i confini religiosi per proiettarsi nella contemporaneità e porsi come un’esperienza dai tratti fortemente catartici. L’angelo ribelle, di cui Tosatti svela l’intimo e desolante rifugio, è il simbolo di una disubbidienza giustamente condannata, di una scelta che nelle intenzioni originarie non è orientata a fare il male, ma che ne diventa inevitabilmente il vessillo. Di Lucifero emerge anche una parte nostalgica di cui Tosatti è traduttore quando concepisce all’interno di una stanza dorata, la più intima, un passaggio sbarrato da cui è possibile rivedere dantescamente il cielo e le stelle. Lame di luce penetrano con speranza da saracinesche semiaperte, profanando un ambiente popolato da cupe simbologie (reliquiari, sedie instabili, campane); quella stessa speranza di cui Santa Teresa è appassionata narratrice. È un’opera sull’errore e sulla possibilità di riscatto. 

4_Ritorno a casa è un passo lungo e faticoso verso la salvezza, un approdo a una condizione sospesa che inchioda l’animo umano alla desolazione di un luogo, un imponente ex ospedale militare abbandonato al logorio del tempo, che nelle intenzioni dell’artista si configura come la spiaggia del Purgatorio dantesco. Nessun Catone ad accoglierci, né un Virgilio a guidarci nei quattromila metri quadrati di un Antipurgatorio rivisitato, teatro di un silenzio assordante disseminato nella ripetizione ossessiva di ambienti molto probabilmente vissuti nella speranza di una salvezza possibile e di un ritorno a casa. All’interno delle celle del primo piano appare la riproduzione fotografica del rifugio solitario di Lucifero, la sua camera segreta, una traccia che si pone quasi come monito a non ricadere nell’errore. In uno degli ambienti più suggestivi, situato al secondo piano, una serie di vasche colme d’acqua popolano un corridoio incorniciato da antichi affreschi di tema sacro che preparano spiritualmente il visitatore all’incontro con una simbolica porta dorata, probabile soluzione salvifica. L’opera è anche momento di riflessione sul tempo, su una condizione di attesa e di incertezza nella ricerca di una nuova via non necessariamente ascensionale. Inoltre, al sole di Napoli, che si diffonde fiero attraverso una serie di finestroni aperti, è affidato il compito di costruire uno schema di alternanze luministiche che influiscono particolarmente sulla fruizione degli ambienti, elemento questo che ricorre spesso in tutto il ciclo. Ed è proprio la luce la protagonista del quinto intervento, intesa come via di salvezza che è insita nell’animo umano. 5_I Fondamenti della luce è un’opera che agisce sulla forza della collettività, sulla possibilità di riscattare la storia e l’uomo dalle ingiustizie compiute, e che prende avvio dalla triste vicenda di Paolina T., una giovane internata perché povera e omosessuale in un manicomio di Teramo, un luogo legato concettualmente e a filo doppio con la sede della mostra, l’ex reclusorio di Santa Maria della Fede, che è stato prima un carcere per sole donne e poi un ospedale per prostitute. Il lavoro di Tosatti si collega quindi a una dimensione sociale e politica, ricorrente in buona parte del progetto, in cui è possibile scorgere opportunità di redenzione e riscatto. L’intero progetto rappresenta oggi un momento cruciale di rilettura della parabola umana e nel contempo una presa di posizione decisa sul ruolo che l’arte e gli artisti in particolare devono assumere nei confronti della società, una postazione aperta e inserita in contesti reali, non più rinchiusa nella torre d’avorio di quella autoreferenzialità che troppo spesso minaccia le traiettorie dell’arte contemporanea. Un ciclo che ha contribuito anche a riscoprire angoli monumentali di una Napoli decadente ma bellissima. Fino al 30 giugno, ex Ospedale Militare, Napoli