L’inquietudine sperimentale che contagia la ricerca pittorica del secondo e del terzo decennio del Cinquecento, narra quell’ombra di disfacimento dell’elegante e classica Maniera, un rapporto dialettico si manifesta nella generazione di artisti che vede il fallimento dei sogni dell’Umanesimo, generando una crisi di coscienza votata allo scardinamento dell’equilibrio e delle regole classiciste, per direzionare la pittura in un vortice di magistrale e bizzarra eloquenza. Il Manierismo, appellativo sprezzante di un pensiero storicista, diviene concezione drammatica dell’esistenza, esegesi di un gusto dissonante, di un’ineluttabile estetica votata al rischio e all’eccesso. Da Pontormo a Rosso Fiorentino, da Giulio Romano a Polidoro da Caravaggio, l’insorgenza anticlassica presenta in modo esplicito uno sperimentalismo artificioso ed enfatizzato, una linea pittorica che condurrà inevitabilmente al trionfale barocco e che vede in questa generazione di pittori un inesauribile corollario di nuove soluzioni linguistiche.
Affiancare il Manierismo all’opera di Nicola Samorì significa in prima istanza occuparsi di un oltraggio, di una ribellione ai classici, ai precetti canonici di un tipo di pittura formulata per celebrare equilibri saldamente ancorati alla regola. Samorì trasfigura l’ideale antichizzante, decompone corpi, scarnifica l’epidermide dei suoi soggetti, coglie le risonanze di un atteggiamento figurativo insofferente alle leggi di un codice. Nei suoi lavori quell’impazienza eterodossa, quell’affinità nello spalancarsi imprevedibile di un vuoto, di una mancanza, diviene il segno distintivo di una ricerca, o solo propriamente di un’invenzione. Samorì lacera la figura, la sua audacia rispecchia, nell’evoluzione contemporanea, il rapporto con gli insorgenti della scena artistica cinquecentesca. Nei suoi studi fisionomici, come nei suoi lavori plastici, l’artista abbandona la banalità dello stereotipo, congela il richiamo romantico e innesta l’insondabile, si appropria di un metodo che offusca il reale, per connettersi a preziosi bagliori di una trasfigurazione astratta e visionaria.
Iconoclasta ai limiti di un riflesso baconiano dove, come suggerisce Deleuze, ”Nessuna arte può essere definita figurativa, la sostanza è non rendere il visibile, ma rendere visibile”, un procedimento che in Samorì celebra l’esorcizzazione della figura, rende la carne contrita e ne enfatizza la vulnerabilità, utilizzando in ogni opera quella vivace invenzione, un’acrobazia di linee e colore che arricchisce l’intreccio di collaudate geometrie. La Bella Maniera ha individuato i propri limiti: la regola, l’equilibrio razionale, l’ordine dell’universo vengono prontamente cancellate dalla guerra e dalla distruzione, così come nel Cinquecento, anche il contemporaneo affronta i suoi limiti e le sue tragedie, in questa ansia di mistificazione Nicola Samorì obbedisce ad un impulso inquieto, nella sua opera vi è una carica eversiva, una necessità di dissacrazione, un’audacia che oltrepassa il segno per dare nuova vita alle radici di un classicismo destrutturato.
Fino al 30 aprile, Monitor gallery, via Sforza Cesarini 43A, Roma; info: www.monitoronline.org