Il lato oscuro del Belgio

Scrivere subito dopo i fatti di Parigi di novembre portava con sé il rischio di inciampare nella trappola di una facile retorica pacifista o di una frettolosa elargizione di colpe. È stata la svolta belga della vicenda a innescare una serie di riflessioni degne di essere considerate, in particolare su quanto il mezzo fotografico e l’arte in generale possano avere una risonanza nella vita reale e non arroccarsi su posizioni troppo autoreferenziali. Alcide De Gasperi in occasione della conferenza di Bruxelles del 20 novembre 1948 Le basi morali della democrazia, in De Gasperi e l’Europa, pronunciò un discorso, un’elegante difesa della libertà politica e dei valori morali della democrazia, dipingendo il Belgio come ”esempio di resistenza morale contro ogni forma di violenza, dove la insufficienza delle armi materiali è largamente compensata dalle risorse di una civiltà superiore”. De Gasperi ammette addirittura di avere ”un antico debito da pagare verso il primo Paese sul Continente a fondare un regime libero”. Ora, lungi dall’essere questo uno scritto di dietrologica e presuntuosa speculazione e tenuto conto delle inevitabili inclinazioni politiche delle parole di De Gasperi, da queste il Belgio emerge come luminoso esempio di civiltà. Un’immagine sovvertita dalle ultime vicende politiche che hanno visto questo paese come base stabile di un’intollerabile pianificazione di morte.

Queste constatazioni diventano pretesto per riflettere su altre questioni, certamente meno drammatiche, che riguardano lo status di un certo tipo di fotografia che rischia di apparire impantanata in fraintendimenti anche di natura ontologica oltre che di metodo. Ne è un esempio la serie fotografica del 2014 di Giovanni Troilo, La Ville Noire che, alla luce di queste vicende inquietanti, assume oggi, più di prima, i connotati di una attualità urgente ed evidentemente scomoda. Al fotografo, vincitore del World Press Photo 2015 nella categoria contemporary issue, dopo pochi giorni fu ritirato il premio dalla stessa commissione, in seguito alle lamentele del sindaco di Charleroi, che aveva accusato Troilo di aver restituito una realtà fasulla attraverso immagini e descrizioni volutamente alterate.

In questa vicenda, si può facilmente individuare una condizione di malessere sociale ascrivibile a una larga parte dell’Europa, e che individua appunto in Charleroi, in Belgio, un apice di trascuratezza e degrado molto lontani dal racconto degasperiano. Certo, sono passati circa settanta anni durante i quali Charleroi ha conosciuto grande fermento industriale, divenendo meta di migliaia di migranti che hanno trovato lavoro nelle industrie siderurgiche, del carbone, chimiche e meccaniche. Scavando ancora un po’ si scopre che lo stesso De Gasperi ha firmato nel ’46 un accordo con il ministro belga Van Hacker per l’acquisto di carbone a un prezzo di mercato, in cambio di circa cinquantamila uomini destinati ai pericoli del lavoro in miniera. Gli italiani che andarono a lavorare in Belgio tra il ’46 e il ’57 furono circa  150 mila e con un contratto disumano che prevedeva cinque anni di impiego, di cui uno obbligatorio, pena l’arresto. Ed è da qui che parte l’indagine di Troilo. 

Le sue fotografie nascono da una forte consapevolezza di questa storia, da un sostrato autobiografico che gli ha permesso di scandagliare i mutamenti di quella società. I suoi scatti certo non ci parlano di terrorismo, né tantomeno prevedono stragi, ma intervengono duramente su un quotidiano ormai rutilante che è pretesto sì per una narrazione a effetto, ma è anche possibilità di interpretare un punto di vista radicato nella realtà. Nelle fotografie di Troilo non si intravede necessariamente la presunzione di verità, ma più che altro il taglio autoriale di chi vuole proporre uno sguardo sul mondo attraverso il medium fotografico. Si tratta di prelievi di realtà, porte socchiuse che ora non possono essere richiuse come se nulla fosse accaduto.

Il suo non è un reportage classicamente inteso, dove per classico si intende un genere fotografico che oggi è ormai appannaggio di fotoreporter da iPhone. È un’occasione per leggere il grande libro della realtà in un’altra lingua, quella di una metafora che mostra possenti e malinconiche radici, profondamente abbarbicate al suolo. Il suo è un invito a riscoprire, se mai fosse stato dimenticato, il potenziale dell’arte. E poco importa se c’è chi per motivi politici o per mancanza di autorevolezza fraintende la forza del medium fotografico, sposando la flebile causa di una verità assoluta e ormai piena di crepe insanabili. E importa ancora meno se il cugino di Troilo abbia accettato di farsi spiare mentre fa sesso, o se l’atelier di un presunto artista dai gusti lascivi sia da collocare a Charleroi o a Molenbeek. Importa che questo tipo di lavoro, come tanti altri, ha la forza di raggiungere le coscienze e smuoverle, al di là di prese di posizione politiche e saccenze accademiche di istituzioni prestigiose che tra l’altro indeboliscono la propria credibilità con clamorosi passi indietro di recente introduzione. Ne sono un esempio le modifiche al regolamento effettuate ultimamente proprio dal World Press Photo che bandiscono ogni tipo di manipolazione e di ritocco fotografico.

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