«Il mio dovere è comprendere. Comprendere il mondo. Questo è il prezzo da pagare per la fortuna di essere vivi». È l’incipit dell’autobiografia di Vivienne Westwood, vera e propria icona senza tempo. Scritto a quattro mani con il connazionale Ian Kelly – attore teatrale e cinematografico, nonché autore e drammaturgo – il volume (Odoya, 416 pagine, 30 euro), ricco di foto e illustrazioni, tratteggia gli eventi, le persone e le idee che hanno dato forma e sostanza ad un’esistenza incredibile. Già, perché quella della stilista, attivista e co-creatrice del punk Vivienne Isabel Swire, questo il suo nome all’anagrafe, è una storia affascinante, forte di una vita personale fuori dagli schemi – «mamma, più volte moglie e compagna, nonna», si legge nella presentazione – e di un percorso professionale che ha attraversato cinque decenni, influenzando milioni di persone.
Dalla felice infanzia nel Derbyshire, dov’è nata nel 1941, al trasferimento nella Londra degli anni Cinquanta, dai primi (originalissimi) monili venduti sulle bancarelle di Portobello road – «le mie uniche entrate provenivano dalla vendita di gioielli. Ero tornata a vivere con mia madre. Solo così riuscivo a cavarmela» – al vestito realizzato per il primo matrimonio con Derek Westwood e la nascita del figlio Benjamin. Dalla separazione consensuale alla turbolenta relazione con Malcolm McLaren, futuro manager dei Sex Pistols («Era piuttosto energica, una volta l’ho chiusa dentro una credenza», ricorda il chitarrista Steve Jones), da cui nasce il secondo figlio Joseph Corré. E ancora, dall’apertura del primo negozio su King’s road, Let it rock, destinato a cambiare diversi nomi e stili all’approdo al made in Italy attraverso la collaborazione con Carlo D’Amario (che la definiva «una bomba a orologeria»), dalla relazione platonica e culturale con lo storico dell’arte Gary Ness al secondo matrimonio clandestino con il suo studente Andreas Kronthaler, l’artista Vivienne Westwood – perché di arte si parla – ha vissuto, e continua a vivere, numerose vite.
Se negli anni Settanta viene riconosciuta come l’ideatrice del look punk, con creazioni tanto stravaganti quanto provocatorie, negli anni Ottanta i suoi modelli traggono ispirazione sia dalla moda di strada giovanile sia dalla tradizione e dalla tecnica («la gente pensa che la moda sia una specie di festa hollywoodiana, ma devi saper tenere in piedi il tutto, non solo avere idee folli e geniali», sottolinea D’Amario). Senza dimenticare la Westwood del nuovo millennio, che si impone per l’impegno sociale e politico come attivista verso organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani e civili. Sempre con uno sguardo rivolto (anche) al passato. Perché, come lei stessa ammette: «grazie alle persone che sono vissute prima di noi possiamo riscoprire diverse visioni del mondo tramite l’arte – questo è il vero significato della cultura – e, attraverso il confronto, formarci la nostra idea di un mondo migliore di quello in cui viviamo, e che abbiamo devastato».
Info: www.odoya.it