Quello di Marco Strappato è un discorso sulla visione indagato in lungo e in largo. Fin qui nulla di nuovo, anche lui ne è consapevole: «Se dovessi semplificare il mio lavoro, direi che faccio una ricerca intorno e sulle immagini, che vuol dire tutto e niente». Tuttavia, la faccenda si complica se ci si domanda cosa vuol dire parlare di immagine nella cultura post-internet. L’analisi di Strappato si imbatte in questo interrogativo dopo un lungo peregrinaggio linguistico e formale, partito dalla negazione assoluta della rappresentazione, poi arrivato alla completa accettazione di ogni sua possibilità. La soluzione alla questione iconografica per Strappato non va cercata nella nostalgica appropriazione del passato, ma in quell’attitudine che ormai fa parte di chi è cresciuto negli anni Zero, con gli occhi incollati allo schermo e il cervello sincronizzato su più dispositivi alla volta. Un processo che attraversa simultaneamente piani distinti, mette a confronto e sovrappone livelli concettuali e formali per poi risolversi, in Strappato, nell’apparente contraddizione di un tramonto digitale o di un lago reale che sembra immaginato. «Sono sempre alla ricerca di un luogo altro, un bacino dove potenzialmente confluiscono tutte le immagini del mondo», non importa che sia uno sfondo, un colore, una linea o un paesaggio.
Dove ha origine la tua ricerca artistica sulle immagini?
«Nel Medioevo un uomo vedeva in media 300 immagini nella sua vita, cosa che adesso fa in circa un’ora. Il mio punto di partenza è stato utilizzare l’esistente e riformularlo in senso artistico. Prima invece lavoravo su spezzoni di film in cui lasciavo solo le parole, in pratica una completa negazione dell’immagine. Ora il discorso è più complicato. Sto lavorando con CGI (Computer Generated Images), gradienti e sfondi ma la carta e la stampa continuano a esserci. Una cosa non toglie l’altra, alcune immagini sono prodotte da me, altre trovate, alcune in bassa definizione, altre con un’ottica perfetta. È nel solco tra queste dicotomie la vera natura dell’immagine».
Perché alla base dei tuoi lavori ci sono quasi sempre paesaggi?
«Di fatto, è un genere che è sempre esistito in arte. Nel paesaggio, il confine tra autentico e inautentico è molto più labile che nella rappresentazione della figura umana. Prendiamo lo sfondo Windows Bliss, l’immagine più vista della storia; può sembrare una CGI ma in realtà è un paesaggio della California. Anche FakeLake, una foto che ho scattato nel 2011 in un parco di Londra sembra, invece, riprodurre un luogo marziano. Allora stavo riflettendo sul significato di immaginario, di per sé un concetto astratto, irrappresentabile, dai margini mutabili. Quel lago verde mi era sembrato la sua perfetta rappresentazione in quel preciso momento».
Come sei passato dal lago al mare di Seascape, opera finalista del Talent Prize?
«Forse è una risposta un po’ romanzata ma il passaggio è stato naturale, ho trascorso quasi tutta l’adolescenza nelle Marche e, per viaggiare, mi muovevo sulla costa dell’Adriatico. In più, quando ho iniziato Seascape avevo la stessa età di Pino Pascali quand’è morto. Insomma, in questo lavoro ci sono vari piani: foto d’archivio di Abate, frammenti di una mia scultura distrutta che ho poi fotografato, desktop wallpaper modificati e il gradiente che ho creato per lo sfondo. Il blu che uso, come il verde, è un colore particolare. In questo caso è il blu del Chroma Key (blue screen), fatto apposta per il cinema digitale, che, come un grado zero, consente di proiettare tutte le immagini del mondo. Questo collage digitale rappresenta quello su cui adesso sto ragionando, l’uso dei livelli, un’attitudine che oggi viene definita post-web o desktop-based e riassume l’attività che svolgiamo oggi con il nostro pc. In realtà è una cosa che ho sempre fatto, solo che prima usavo la carta. Il layering sta cambiando il modo in cui si fanno le opere, almeno per me».
Come sono adesso i tuoi paesaggi?
«Sono sempre paesaggi, ma più astratti. Nella serie Untitled (35-1) l’idea di spazio è ridotta ai minimi termini, tracciando le coordinate x,y,z sul piano bidimensione e aggiungendo livelli su quello sfondo. In Untitled (Atmosphere… percentage), 2015 è ancora più essenziale, si riduce a metadati presi dal sito della National Oceanic and Atmospheric Association. Sul foglio acetato stampato c’è la percentuale dell’ossigeno a 5mila metri di profondità del mare, mentre nel monitor è rappresento l’ozono, la pelle della terra. In un certo senso c’è un ritorno alla materia prima ma anche un’apertura a una dimensione universale».
La tecnologia come si inserisce in questo discorso?
«Diventa parte dell’opera, non è più nascosta. Si vedono i cavi, le prese e gli schermi, elementi centrali nel mio lavoro. Sono il perimetro delle immagini; in un modo o nell’altro, tutto ha a che fare con loro, anche quando non si vedono. Come gli Lcd arms, bracci meccanici utilizzati da broker o professionisti di photo retouching, che dovrebbero reggere dei monitor, invece espongono se stessi. Non solo, dallo schermo è partita la mia ricerca sul concetto di Black mirror, superficie riflettente del monitor quando è spento, ma anche veicolo di immagini sui nostri dispositivi tecnologici. Il nero, come il verde e il blu è un territorio generativo per le storie, lo spazio vuoto tra due immagini. Ma è anche il colore che mi ha portato ai limiti della terra, nell’universo. Da qui Where do you wanna go today?, l’open question che compare nell’opera Laocoön, che è stata usata per lanciare Internet Explorer ma è anche una domanda che faccio a me stesso e mi spinge ogni giorno ad andare avanti con la ricerca».
PROGETTI
Marco Strappato, di Porto San Giorgio classe1982, ha da poco concluso un periodo di ricerca al Royal College of Art di Londra e sta attualmente è in residenza alla Qwatz di Roma. Dall’ 11 dicembre al 13 febbraio è in mostra con la personale Over Yonder alla The Gallery Apart di Roma. Sta lavorando a una nuova serie di lavori ispirati all’album di Franco Battiato Mondi Lontanissimi, «nelle cui canzoni – spiega Strappato – il viaggio è uno dei temi principali, sia sulla terra che nello spazio, come in Via Lattea e No Time No Space. Nell’album, inoltre, è possibile percepire un immaginario futuristico che tratta di astronauti, telescopi e navicelle spaziali, come nei Treni di Tozeur». L’artista ha poi in programma di passare parte del suo tempo all’Osservatorio di Roma, costituito da tre diversi siti: Monte Porzio Catone, Campo Imperatore e Monte Mario: «I tre siti – spiega l’artista – costituiscono un unicum, difficilmente reperibile in altre parti del mondo». Info: www.thegalleryapart.it