Esther Mathis, l’intervista

È una lotta contro lo scorrere del tempo cercare di fermare, anche solo per un attimo, il processo inarrestabile della natura. L’indole dell’uomo da sempre lo spinge a farlo, nel tentativo di registrare e comprendere ciò che sfugge al suo controllo. Così pure quella dell’artista: «È una tendenza che è sempre esistita, se pensiamo ai Becher ma in generale a tutti gli archivi, le catalogazioni. Se non capisci bene come funziona una cosa, come fai a parlarne?», spiega Esther Mathis da Zurigo. Sette anni a Milano, di cui due nello studio dei Masbedo, le hanno insegnato soprattutto una cosa, un’organizzazione rigorosa. Ma, nonostante sia possibile documentare il comportamento degli elementi presenti in natura, poiché regolato da leggi fisse, all’atto pratico una serie di variabili esterne ci impediscono di prevedere in modo assoluto come questi reagiranno. Questo rapporto tra caos e regola è anche alla base della ricerca dell’artista svizzera, che parte dall’infinitesimale per rappresentare l’infinito, cercando di sospendere l’istante di un processo che dura da millenni e che continuerà anche quando le opere degli artisti non ci saranno più. È la storia dell’uomo davanti ai fenomeni della natura: «La cosa bella è forse riuscire a fermarli per un attimo, ma è confortante sapere che non sempre si può, certe cose semplicemente non tengono».

Come ti sei avvicinata alla scienza?
«Spesso nel mio lavoro seguo una caratteristica che fa parte anche della mia formazione fotografica: partire da un dettaglio piccolissimo e andare vicino per catturarlo, capirlo meglio e, per farlo, mi appoggio a regole elementari di fisica e chimica. Non si tratta proprio di scienza, confonderla con l’arte credo sia un po’ rischioso e in fondo non mi interessa così tanto. Sono più domande che mi pongo su cose che ci sono intorno a me, intorno a tutti».

Come il sale, che, non a caso, è al centro di una tua recente installazione.
«Il sale è il cristallo più semplice che esista. Ho cominciato a fare i primi esperimenti un anno fa con quello da cucina, per capire a cosa serve, come si forma. Alla fine basta versare del sale nell’acqua e aspettare che evapori. La mia installazione si compone di una serie di bottiglie appese, riempite con una soluzione salina, un filo di lana e piastre in cemento per terra. Le gocce scivolano lungo il filo e sul pavimento formando cristalli perfetti, ma ogni volta diversi».

Quindi il risultato è una sorpresa anche per te?
«Sono sempre molto curiosa di vedere com’è diventata l’opera. Allo spazio O’ di Milano, per esempio, mi hanno detto che non si è espansa più di tanto ma è diventata spessa, ha fatto nuovi cristalli per terra e addirittura adesso dentro ci vive un ragno. So però che continuerà a cambiare. La regola del cristallo è di per sé perfetta, tutto quello che non lo è appartiene all’ambiente circostante e a chi lo deve curare. C’è un processo inarrestabile in atto, cerco di documentarlo, ma è un’impresa impossibile».

Come rendere visibile l’aria?
«Nel progetto One Year of Atmospheric Exposure ho posizionato per 365 giorni dei vetrini fuori alle finestre delle città in cui ho vissuto, catturando polvere e impurità dell’aria. Ho poi usato i vetrini come negativi che stampavo in camera oscura e, a prima vista, possono sembrare a chi le osserva dei cieli o delle costellazioni. Si prestano insomma a diverse interpretazioni; mi interessa molto la questione del vedere non vedere, capire e non capire. In Höhe über Meer, ad esempio, ho studiato come cambia la percezione mettendo a confronto il comportamento del cervello umano e delle radici delle piante quando va via l’ossigeno».

La figura umana sembra essere scomparsa fisicamente dai tuoi lavori rispetto all’inizio. Come mai?
«In realtà ora è più presente di prima anche se non la faccio vedere. Tratto aspetti che sono molto più umani di una faccia: parlo di influenza, cambiamento, cura, attrazione, processo».

Utilizzi spesso la parola processo ma le tue opere sembrano immobili.
«Ci lavoro molto su, ma alla fine cerco sempre di fermarlo. Arrivo al punto di riuscirci ma poi tutto svanisce e ricomincia da capo, quindi, nel tentativo di stopparlo, faccio vedere che è impossibile. È un caos che sembra totalmente in equilibrio. Come in Waves, un ballo continuo di 140 vetri che si muovono in modo leggermente differente gli uni dagli altri ma tutti insieme, come un’onda, oppure nell’installazione 17mm, in cui due magneti sono posizionati in modo tale che non siano attaccati ma che la loro attrazione sia massima. È un equilibrio precario quello della natura, molto umano».
Info: www.esthermathis.com

Progetti futuri
L’artista, partendo da una ricerca sulla natura morta fotografica, sta lavorando a un progetto che è in un certo senso l’evoluzione naturale di Salt. Accorgendosi che gli oggetti, così come sono posizionati su una tavola a fine pasto o in un bagno, seguono in un certo modo una logica fissa, Mathis inizia a ipotizzare che ci possa essere un’estetica nel caos. «La gestualità che ci porta a posare in un certo modo le cose nello spazio è in parte intuitiva ma è anche una fusione tra esperienza e spazio. È quindi possibile ipotizzare una simmetria tracciando delle linee immaginarie che rappresentano questo rapporto, trasformandole poi in un oggetto tridimensionale». L’artista vorrebbe realizzare il progetto nei bagni dell’Hotel Ibis di Zurigo. Attualmente è in mostra a Winterthur fino al 10 gennaio con la mostra Überblick e alla Tallinn Art Hall con il progetto The Never Ending Story: DOings & kNOTs, mentre fino alla Piano Nobile di Ginevra con Isolated Systems Vol.1.

 

 

 

 

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