La fotografia di Boris Mikhailov, artista ucraino nato a Kharkiv nel 1938, non cerca compromessi estetici, si svincola presto dal giogo di assiologie positive troppo spesso attribuite a questo linguaggio artistico. È una cronaca dal sapore amaro che non indietreggia dinanzi al peso della storia, anzi, ne diventa la traduzione quasi letterale. Addirittura c’è un’estetica del non bello nella poetica di Mikhailov messa al servizio di una narrazione senza filtri, diretta, che parla del dolore, del degrado, delle difficoltà di una società stravolta da cataclismi tirannici, rigurgiti di rivoluzione e invadenze capitalistiche. La sua è una critica aspra ai sistemi politici ed economici dell’ingombrante racconto sovietico, mossa anche con un’ironia di matrice gogoliana. La sua è una fotografia antropocentrica, spesso autobiografica, che in maniera abbastanza anticonformista diventa documentaria. Il suo è un metodo che sfocia in sperimentazioni che lo hanno posizionato tra i maggiori interpreti della fotografia contemporanea.
Già verso la fine degli anni Sessanta lavora su un processo di sovrapposizione di diapositive che genera immagini ai limiti del surreale, e di frequente interviene con dei segni pittorici che ne alterano la natura. L’Italia è ora palcoscenico privilegiato grazie alla realizzazione di due importanti mostre che ricostruiscono contemporaneamente la carriera dell’artista ucraino e ne registrano la traiettoria. A Torino un nuovo spazio interamente dedicato a un preciso linguaggio artistico, Camera – Centro Italiano per la Fotografia, inaugura il proprio corso con Boris Mikhailov: Ukraine, una corposa retrospettiva curata da Francesco Zanot. Oltre trecento opere raccontano la storia di un paese che negli ultimi cinquant’anni ha conosciuto regimi totalitari, guerre, rivoluzioni sociali ed economiche. È una narrazione per cicli, nove per l’esattezza, attraverso cui si dispiega la pratica fotografica di Mikhailov. Superimpositions (1968-75) è dichiarazioni d’intenti stilistici, creazione di immagini altre mediante la tecnica della sovrapposizione. In Red Series (1968-75) e At Dunk (1993) l’artista applica stesure di colore, rosso nel primo caso e blu nel secondo, su fotografie che scherniscono la pesante parentesi comunista prima e dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Case History (1997-98) si concentra sulla condizione di difficoltà vissuta dai senzatetto ucraini sventrati dall’avvento del capitalismo. In mostra anche The Theater of War (2013), il più recente dei lavori, in cui Mikhailov dedica la sua attenzione ai movimenti di protesta del popolo ucraino del 2013 attraverso stampe fotografiche di grandi dimensioni e di notevole impatto.
A Napoli il Museo Madre impegna l’ala sinistra del terzo piano nella costruzione di una proposta espositiva, Io non sono io, a cura di Andrea Viliani ed Eugenio Viola, che ribadisce la posizione rilevante di Mikhailov all’interno del panorama artistico contemporaneo. Il titolo della mostra è la traduzione in italiano della serie I Am Not I (1992), che qui è assoluta protagonista. Il solito approccio ironico e tagliente viene affiancato dalla schiettezza di certe immagini che spesso propongono nudità e posture non proprio accomodanti nè facilmente fruibili e che centralizzano la tematica del corpo inteso come tessuto permeato dalla dolorosa esperienza della vita. L’ultima sala è riservata all’audace accostamento di un trittico di foto di Mikhailov e due dipinti del pittore spagnolo vissuto a Napoli Jusepe de Ribera (1591-1651), il San Paolo Eremita (1638) e la Santa Maria Egiziaca (1651), che insieme ad un fotoritratto dell’artista ucraino danno vita a una riflessione sul corpo e il suo disfacimento, sul destino dell’essere umano e sulla sua esistenza. Completano il percorso espositivo le serie Yesterday Sandwich (1972-75), Salt Lake (1986), By the ground (1991), Football (2000), Superimpositiosns from the 60/70s, The Wedding (2005).