In Jackson Heights

Venezia

Jackson Heights, Queens, New York City, è una delle comunità più multietniche e multiculturali degli Stati Uniti (se non del mondo) in cui vivono immigrati quasi da ogni parte del globo, cittadini, con la green card o senza documenti. A raccontarcelo è Frederick Wiseman, classe 1930, Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 2014 (dall’opera prima Titicut Follies del 1967 a National Gallery del 2014) nel suo ultimissimo lavoro, offrendoci interessanti spunti di analisi su questioni come l’assimilazione, l’integrazione, l’immigrazione e le differenze culturali e religiose, ormai comuni a tutte le più importanti città del mondo occidentale. Terzo film di cinema verité sulla comunità del regista statunitense, (ASPEN e BELFAST, MAINE), In Jackson Heights ci fornisce un vasto e complesso ritratto della vita contemporanea.  «Ho tracciato una linea immaginaria intorno a una parte del distretto Queens (uno dei cinque in cui è divisa la città di New York City), che è conosciuta come Jackson Heights» ci racconta Wiseman. «Qui ci sono qualcosa come 167 lingue parlate, comunità provenienti da ogni Paese del sud e centro America e popolosi gruppi dal Pakistan, Bangladesh, India, Tailandia, Nepal e Tibet. Vivono con i discendenti dei primi immigrati gli italo-americani, ebrei e irlandesi. L’area è un vero melting pot americano che ricorda il Lower East Side di New York City alla fine del 19esimo secolo». Nessuna voce narrante, solo il rumore ferroso del NYC subway a guidarci nella vita quotidiana del quartiere. «Il metodo di ripresa utilizzato è stato camminare filmando gli eventi in strada, entrando negli esercizi commerciali, (negozi di vestiti, panifici, lavanderie automatiche, ristoranti, supermercati) nelle istituzioni religiose (moschee, templi, chiese). Registrando stralci di conversazioni, dibattiti pubblici di associazioni e istituzioni sociali (si prepara il gay pride nella sede della sinagoga) quindi racconti privati in cui emerge anche un conflitto tra il mantenere i legami con le tradizioni dei Paesi di origine e la necessità di apprendere e adattarsi allo ”stile America” e ai suoi valori di riferimento.
Dietro le 3 ore e 10 di film ben 9 settimane di riprese e 10 mesi di lavoro di montaggio in cui racconta il regista «c’è una conversazione in quattro direzioni: tra (1) il mio ricordo del posto, (2) il ricordo di ciò che la memoria ha trattenuto nelle immagini; (3) la mia esperienza generale e (4) e la fase del montaggio dove cerco di comprendere cosa accade in ogni singola sequenza, a scegliere il materiale che voglio utilizzare e a scoprire connessioni visive e tematiche tra le sequenze. Il film trova una forma in quella conversazione e rappresenta cosa ho imparato dall’esperienza di fare film».

Una carriera straordinaria di oltre mezzo secolo tra teatro e macchina da presa. Uno dei più grandi documentaristi della storia realizza film con una struttura drammatica, prendendo a modello la fiction letteraria. Osservatore della realtà e avido lettore cerca di trasferire una parte di quel che legge nei suoi film. Noi lo abbiamo incontrato in occasione del 72esimo Festival d’arte cinematografica di Venezia dove ha presentato il suo lavoro nella sezione fuori concorso.

Perché ha scelto di raccontare Jackson Heights? «Perché è una comunità così multiculturale e multirazziale e l’America è una terra d’immigrazione. Volvevo vedere cosa stesse accadendo in questa ultima generazione d’immigrati. Ho letto molto sul lower side di New York alla fine del 19esimo secolo e, a mio modesto avvisto, si riscontrano molte similitudini tra ciò che accadeva allora e cosa accade oggi. Allora si partiva dall’Italia, dall’Irlanda dall’Europa centrale, dalla Russia, ora principalmente dall’Asia e dal sud America».

Questioni di convivenza multietnica e multiculturale a J.H. estendibili anche all’Europa? «Quello che accade in J.H. accade in ogni importante città dell’Occidente. Gli immigrati non provengono necessariamente dalle stesse aree geografiche, il background culturale, etnico, religioso, potrebbe essere forse diverso, ma le questioni generali che la loro presenza solleva sono le stesse. Le responsabilità dei cittadini nel dover aiutare queste popolazioni che fuggono da una condizione di miseria economica, dalla guerra e dall’assenza di opportunità. Credo che le questioni che In Jackson Heights cerca di analizzare presentandole nel film sono, con le differenze menzionate, più o meno le stesse che in Europa».

A J.H. le associazioni lavorano con dei risultati concreti per un’unità nella diversità? «Sì. C’è una sequenza del film ad esempio in cui si parla di una campagna di grande valore finalizzata a introdurre una carta d’identità di NYC per immigrati che altrimenti non avrebbero nessuna forma documentazione. Poi vengono presentate le difficoltà dei piccoli negozietti di recenti immigrati, in conflitto con le grandi attività commerciali nel processo di trasformazione del quartiere. Quello che si vede nel film è quello che accade negli USA a Chicago, San Francisco, Los Angeles, ma anche nelle città più piccole. Ma ho visto realtà affini anche in città come Parigi. Hanno forme forse diverse ma le questioni principali sono le stesse: come avviene il processo di assimilazione e d’integrazione nelle società più estese; che tipo di aiuto viene offerto dallo stato, che tipo di conflitti solleva la loro presenza. C’è tuttavia qualcosa di diverso in America. L’America infatti è terra di immigrazione. La popolazione americana è costituita da immigrati inglesi, italiani, irlandesi, ebrei, centro europei, sud americani, asiatici. L’idea della gente che viene da parti diverse del mondo e che brama la cittadinanza americana ha fatto l’America».

Passando al suo lavoro, nei suoi documentari lei non intervista. Ci spiega il perché di questa scelta? «Io non intervengo in alcun modo, è vero. Mi piace l’idea di portare lo spettatore nel centro della scena come l’ho vista io. Se il film funziona ci si deve sentirne proprio nel bel mezzo di quello che si vede e si ascolta. Il mio compito è quindi di fornire allo spettatore tutte le informazioni in modo da permettergli di farsi una propria opinione. Guardando In J.H. si attraversa la strada di corsa tra clacson, sirene, si partecipa a un meeting in mezzo a scambi di idee. Insomma sembra di essere lì senza interferenze».

Avete seguito un’idea nel momento delle riprese? «Quando facciamo le riprese l’idea è ”questa è una buona sequenza da girare”, ma non so cosa succederà in seguito, se i fatti avvaloreranno la mia scelta. Ogni volta che accendi la camera è un azzardo, una scommessa. Le persone possono alzarsi e andarsene, oppure non dire nulla di interessante, devi fidarti del tuo istinto».

Possiamo dire che costruisce il suo lavoro giorno dopo giorno e che, giorno dopo giorno, prende forma la sua struttura? «Durante le riprese non ho idea della struttura. La struttura emerge solo verso la fine della selezione del materiale. Prima seleziono le singole sequenze e solo dopo aver valutato quelle che credo potrei utilizzare inizio a pensare alla struttura».

In J.H. ha uno sguardo empatico e rispettoso ma nel contempo in grado sollevarsi dall’intensità di alcuni racconti e far sorridere. Come riesce a creare questo elegante equilibrio? «Il lavoro di montaggio è come quello della scrittura un romanzo, devi figurarti una struttura drammatica narrativa da seguire. Mettendola in termini generici, se una sequenza è molto triste posso aver bisogno dopo di relativo silenzio, così utilizzo alcune immagini della strada. Se ho molto parlato nella sequenza successiva posso avere della musica, così da dar tempo a chi guarda di assorbire e non saltare immediatamente in qualcos’altro. Oppure mettere vicini parlati molto diversi alternati con qualcosa di molto divertente. Quando lavoro al riordino del film devo aver presente continuamente una struttura narrativa».

Come sceglie le storie da raccontare? Cosa l’attrae? «Mi devo divertire. Mi piace moltissimo questo lavoro, andare là fuori e dirmi ”vediamo che sta succedendo!”. È sempre stato così, è il mio modo di lavorare».

Ha mostrato il documentario alla popolazione di J.H.? «No, ma ho intenzione di farlo alla fine del mese di ottobre».

Quale sarà la prossima storia? «Non so ancora, al momento sto lavorando con un coreografo di un balletto».

 

 

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