Il maggio veronese è arricchito da due imperdibili esposizioni, due artisti opposti nello stile, nella tecnica, nei materiali utilizzati e nella forza espressiva ma entrambi spinti dal desiderio di comunicare il proprio vedere. Partendo dal centro storico della città scaligera proprio dove si trovava il foro romano, oggi Piazza delle erbe, la galleria Giorgio Ghelfi presenta Luci e parole. Interno esterno: colazioni e architetture industriali dedicata a Simone Butturini, mostra che costituisce l’anteprima della personale in programma all’Istituto italiano cultura a Vienna il prossimo ottobre. Nato a Verona nel 1968, si diploma all’Accademia di belle arti Cignaroli, sotto la guida dei maestri Giuliano Colllina e Silvano Girardello. Espone dal 1987 alla Biennale di Venezia, in seguito mostra del Centenario a Villa Pisani di Strà nel 1995 e nello stesso anno alla Joseph Carrier art gallery a Toronto, Canada. Nel 2002 è al museo Bargellini di Pieve di Cento, torna a Verona nel 2007 a Palazzo della Gran Guardia, poi Fondazione Matalon, Milano, una doppia personale con R. Hess a Berlino nella Der moderne galerie. A Roma è presente alla Galleria narciso, galleria Sartori, Mantova nel 2013, Università Bocconi, Milano e infine G.Poma Morcote, Lugano. Oggi di nuovo nella sua città natale con 20 opere realizzate tra il 1991 e il 2015 e pastelli su carta che documentano il percorso dell’artista dove si sottolinea l’unione intima e sacrale tra uomo, ambiente e cibo. Un dialogo tra presente e passato tra dipinti della mostra legata a Expo Veneto e un omaggio all’alta cucina italiana rappresentata dal pluristellato Giancarlo Perbellini. «Il dipinto che Simone ha voluto dedicarmi – dice lo chef – nel momento in cui l’ho visto mi ha davvero folgorato. La Millefoglie che vi è rappresentata, un dolce molto importante nella storia mia e della mia famiglia, sembra quella delle origini quando a prepararla era mio nonno Ernesto. Osservando quest’opera ho fatto un tuffo nel passato». L’inaugurazione ha inoltre regalato ai visitatori il film di Luca Caserta La fabbrica della tela che racconta la nascita di una tela-dipinta dell’artista. Il paesaggio è protagonista nelle torri d’acqua, nei dirigibili, fari e cieli cosmici che testimoniano l’oltre tempo, senza spazio e linearità cronologica. «La pittura di Butturini – come già affermava Giorgio Cortenova nel 2007 – è scabra, per certi versi abbandonata lì sulla tela, come abrasa da una luce radente, l’intensità realistica delle scene quotidiane unita al rimbalzo visionario le coinvolge in un gioco di presenze-assenze, di fantasmi che prendono sostanza e di corpi che svaniscono nella luce. Lo stile dell’artista nasconde e custodisce gelosamente questa luminosità, come un valore che non va sperperato: la luce è interiore oppure è soltanto un inganno».
Per la seconda mostra basta fare qualche passo oltre le mura di Verona per arrivare allo splendido edifico di Studio la città, galleria che da sempre di contraddistingue per la ricercatezza degli artisti e per la decisa e concreta passione nel promuovere la realtà contemporanea più attiva e originale. In questi giorni è in corso un progetto dedicato a Jacob Hashimoto artista per alcuni aspetti decisamente americano anche se nell’animo più profondo è radicato lo spirito e la creatività che richiama una certa eredità giapponese. Fino al 12 settembre è possibile perdersi in lavori site-specific in cui Jacob ha scelto di sperimentare materiali del tutto nuovi e inusuali che affiancano già note opere a parete. Presente anche una nuova serie dei suoi più tradizionali aquiloni in cui, ancora una volta, esprime in modo quasi stereoscopico il suo profondo legame con la natura, riproposta in una sorta di paesaggio astratto, in bilico tra il reale e l’artificiale. Hashimoto, nasce nel 1973 a Greeley in Colorado, vive e lavora a New York. Crea strutture di luce tridimensionali, come arazzi costituiti da migliaia di aquiloni in carta di bambù sospesi nello spazio con fili di nylon. «Nella sua dialettica complementare del vuoto e del pieno – come scrive Luca Massimo Barbero nel 2010 – Hashimoto intende quindi scoprire “cosa fa sentire la natura come natura”: la sua profonda sintonia con la dimensione tecnologica tende proprio a recuperare questo dare forma allo spazio che si pone come una natura dai ritmi diversi e dalle forme determinate dalla propria artificialità. Ecco allora la dialettica tra unità e frammento, il tutto costituito di infinite parti accostate e moltiplicate senza soluzione di continuità: una ossessione di accumulo che è prima di tutto ritmo, vitale e continuo, di una formatività inesausta, di una esplorazione dei confini stessi dell’immagine. E in questa ossessione, la relazione positiva, di continuità e ripensamento continuo, rispetto al passato, proprio e altrui. Dai grandi maestri delle avanguardie come Marcel Duchamp e Kazimir Maleevich, alla liberazione immaginifica di Alexander Calder, ai paesaggi interiori di Mark Rothko, ai bianchi vibranti di Robert Ryman e Agnes Martin, sino alle suggestioni di Richard Hamilton e Fred Sandback, tutto confluisce nei paesaggi della visione di Hashimoto. Per creare una natura che non sia copia dell’identico e dischiuderci così, sempre più illimitati eppure sensibilizzati, questi cieli d’artificio e luce, sino a fare della realtà tutta “una specie di gigantesco dipinto color-field». Tra le sue principali mostre personali ricordiamo Armada nel 2012 sempre a Studio la Città, l’anno successivo Gas Giant alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia in occasione della 55° Biennale d’Arte di Venezia, al Moca pacific design center e Skyfarm fortress alla Mary Boone gallery di New York nel 2014. Le opere di Hashimoto sono parte di importanti collezioni private e pubbliche di tutto il mondo.
Simone Butturini, Galleria Giorgio Ghelfi; Info: www.galleriagiorgioghelfi.it
Jacob Hashimoto, Studio la Città; Info: www.studiolacitta.it