Antony Gormley, Human

Antony Gormley (Londra, 1950) non poteva trovare spazio più significativo per dare voce alla profondità della sua composizione. Una composizione materica e corporea di più di 100 opere sapientemente orchestrata sulla collina del Belvedere, che veglia, controlla e protegge la culla del Rinascimento. Proprio come un’ombra, un compagno fedele, una sentinella o uno spirito sospeso in attesa di essere riconosciuto, ricordato o accettato nella sua incompletezza o umana debolezza. Un parallelismo tra natura e progresso, tra libertà e costrizione, inizio e fine, speranza e abiezione. Una tensione verticale, e alla volta circolare, che cerca di trovare vie espressive e pose parlanti. Direzioni e attitudini volte a stimolare una riflessione o mimare atteggiamenti che, volenti o nolenti, adottiamo tutti nel corso della vita, posizioni fisiche o mentali che riflettono stati d’animo, momenti storici, circostanze sociali ed emotive. Il corpo parla, il corpo riflette e fa riflettere, il corpo è il centro, il fulcro dell’azione o della rinuncia. Esattamente come un’architettura mentale finemente progettata e costruita, le figure metalliche di Gormley si rincorrono e dialogano vicendevolmente, con la struttura e gli spazi circostanti. L’interazione in cui in visitatore viene coinvolto, lo spinge alla scoperta della storia narrata da Human, ma anche della propria, hic et nunc e attraverso i secoli, ripercorrendo l’evoluzione umana, le guerre e le lotte sociali, il lato oscuro del progresso e la dignità dell’homo faber che si rialza dopo le sconfitte e fissa il suo sguardo fiero dritto su verso le stelle.

Al centro della mostra due adattamenti dell’opera Critical mass II (1995) che con le sue 12 figure antropomorfe (ognuna riprodotta in 5 copie), orientate in modo diverso, crea due fulcri d’attenzione diametralmente opposti. Nella zona est della terrazza inferiore, le dodici figure, in progressione lineare, suggeriscono la crescita evolutiva dell’uomo, sia in senso fisico che spirituale. Sul lato ovest, i corpi si trovano ammassati l’uno sull’altro, come un groviglio informe di ferrame e sofferenza, specchio di un’umanità umiliata e irrisolta, evocando tutte le vittime del XX secolo. In Blockwork le forme diventano più rettilinee, maggiormente cubiche e caotiche, creando una forte connessione tra edificio e corpo, piegato o decostruito, comunque concentrato nell’atto della connessione sullo slancio volitivo teso all’armonia e comprensione reciproca. Un legame che si può toccare con mano: vero, solido, tattile. Uno strenuo tentativo, che pare ben riuscito, almeno nell’ideale, di sorreggersi vicendevolmente, come se tutte le parti, animate e non, facessero parte della stessa storia, e, con essa, dello stesso diritto alla sopravvivenza. Durante la visita, gli spazi del Belvedere si fondono con i luoghi della mente, diventiamo parte della rappresentazione messa in atto dall’artista; ci immedesimiamo e cerchiamo di cogliere gli spunti di riflessione suggeriti, diamo occhi vivi alle ombre statiche e osserviamo tutto quanto intorno a noi è verde e illuminato, e continua ad essere garante e rifugio della memoria storica, dal 1972 ad oggi, e ancora.

Fino al 27 settembre, Forte di Belvedere; info: www.comune.fi.it

 

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