Dagli scatti al pennello

In occasione della partecipazione di Roberta Coni alla collettiva inaugurata ieri sera nel museo Bilotti e intitolata Linee di confine, riproponiamo una nostra intervista con l’artista, pubblicata di recente sul periodico Sofà, un nostro progetto editoriale.

Varcare lo studio di Roberta Coni è come varcare la porta dell’anima, aprire lo scrigno dei ricordi e dei sogni più profondi attraverso lo sguardo. Tele di grandi dimensioni diventano luoghi della materia e dei sentimenti, spazi di vita in cui l’artista si muove liberamente, plasma volti, pelli giovani o segnate dal tempo, occhi che scrutano e catturano figure allegoriche, grovigli di corpi stremati che si avvinghiano e afferrano nell’intimo chi osserva, mettendolo a nudo con le sue verità, le sue angosce e le sue gioie. Una tela bianca, un’imbastitura di acrilico per il fondo, giochi di luce e ombre, forme e dettagli che si definiscono con la pittura a olio più morbida. Maestria tecnica e accuratezza descrittiva unicamente finalizzati al vero atto creativo della Coni: «Con la trielina o con degli strappi distruggo, tolgo, faccio riemergere strati precedenti di pittura e la materia pulita, riaffiora luminosità e scopro un microcosmo». Sono gesti salvifici che liberano l’universo racchiuso in ognuno di noi, alla ricerca di quella luce che ci rende unici, diversi eppure uguali. I suoi sono lavori che partono sempre dalla fotografia, sono un mix di inquadrature molto strette perché l’artista cerca il contatto ravvicinato, vuole possedere il soggetto. Dipingere per lei è «un’esigenza: sensazioni da trasmettere e materia da realizzare, dove il video, quando presente, fa da compendio alla pittura», come nelle cornici dei quadri di Mea culpa, omaggio al riscatto di Eva, o nel ciclo sull’Inferno della Divina Commedia, opera iniziata negli ultimi anni grazie all’incontro con Stefano Tamburello.

Tele dagli sfondi scuri, senza tempo, in cui però s’intravede uno spiraglio di speranza dato dalla luce; atmosfere bituminose e luminescenti memori di Rembrandt. La Coni lo definisce «un progetto purosangue su cui lavoro in maniera più scientifica, leggo, mi documento. È un progetto che cambia e matura con me, è il cammino della Divina Commedia, il cammino del mio percorso artistico» che vedrà la realizzazione del Paradiso e forse di qualche canto del Purgatorio. E poi i ritratti, dai toni più leggeri. Sono i lavori più istintivi che caratterizzano la sua produzione, come i turbanti dai richiami vermeeriani o quelli fatti di plastica, più contemporanei, e in pluriball, che isolano i volti permettendo di cogliere la vera essenza di quello sguardo nonché la freschezza e la purezza adolescenziali: «Un periodo che per me è stato una seconda rinascita – precisa l’artista – dentro questi quadri c’è tanto mondo che mi appartiene, sguardi persi e malinconici, in cui è racchiusa parte della mia vita. La pittura per me è stata un grosso esorcismo». Il pennello della Coni racconta ciò che non si vede, descrive la personalità e non la persona, ecco perché può dipingere solo chi conosce, perché per farlo deve leggere dentro se stessa. Scorrendo a ritroso, è al 2007 che risale la prima personale L’idea malsana a cura di Maria Laura Perilli, alla galleria Triphè di Cortona, dove insieme allo scrittore Andrea Sacconi indaga il tema dell’acqua, mentre è nel 2009, con La materia dello sguardo di Lorenzo Canova alle Scuderie Aldobrandini di Frascati, che inizia l’ascesa professionale. La sua produzione l’ha accreditata come una delle giovani artiste più talentuose. E anche per questo è entrata nella “scuderia” della galleria Russo di Roma per la quale ha esposto nella nuova sede di Istanbul a novembre 2014. Tra i suoi lavori futuri è in cantiere un progetto sull’italianità: esportare all’estero la magnificenza italiana, partendo da Dante proseguendo con l’opera lirica e poi chissà. Intanto è di gennaio l’ultima personale alla Core gallery di Napoli.

Fino al 21 giugno; museo Carlo BiIlotti, viale Fiorello La Guardia 6, Roma; info: www.museocarlobilotti.it

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