Parla Luca Campigotto

È presente in questi giorni a Roma con due mostre fotografiche, Luca Campigotto, fotografo tra i più noti nel panorama della fotografia contemporanea. La Galleria del Cembalo ospita fino al 27 giungo 2015 Wildlands and Cityscape, una selezione di suoi paesaggi selvaggi, al limite della civiltà (Lapponia, Isola di Pasqua, Stretto di Magellano) e di vertiginose architetture di diverse metropoli mondiali. Palazzo Poli invece riporta il suo sguardo fotografico nella città eterna, scatti selezionatissimi per Roma, l’Impero per immagini. Un’esposizione, quest’ultima, a cura di Flaminio Gualdoni in collaborazione con l’editore FMR e l’Istituto Centrale per la Grafica, fino al 3 maggio 2015.

In questi giorni sono presenti a Roma due tue esposizioni. Roma ti celebra quindi, e tu la celebri a tua volta. Quali emozioni hanno guidato il tuo lavoro nella città eterna?
«Lavorare sulle architetture dell’antica Roma è stata una bellissima esperienza. Amo l’archeologia e poter fotografare luoghi intrisi di storia. Questa lunga esplorazione dell’eredità di Roma è stata un’altra avventura nel tempo. Avverto moltissimo la forza di quel che resta, di quel che rimane in piedi attraverso secoli di rovine. Per me si è trattato di un nuovo confronto con la dimensione mitica dello spazio e la sfida di una sua conseguente rappresentazione non solo documentaria ma, soprattutto, evocativa e iconica. Provo un’attrazione fatale per tutto quel che è lontano. Mi interessa fantasticare quel che fotografo, sia nel momento dello scatto che in fase di postproduzione. Come se la fotografia mi permettesse d’impossessarmi di epoche che non mi appartengono».

Calvino scriveva: “Di una città non apprezzi le sette meraviglie, ma la risposta che ti dà”. Per te quale città ha avuto questo ruolo?
«Ho cercato altre volte di ritrovarmi nelle definizioni di Calvino, uno scrittore tanto caro al mondo della fotografia ma, a dir la verità, in genere non ci riesco. Le uniche risposte a me le ha date New York, a cui da sempre mi son sentito appartenere, e in cui adesso passo gran parte del mio tempo. Ma questo ha a che fare, più che altro, con la mia vita e i miei desideri. Come fotografo di paesaggio e architettura, nelle città – e non solo nelle città – cerco proprio, invece, di scoprire un visibile straordinario che non ho mai conosciuto prima. Paradossalmente, quindi, direi che la miglior risposta che una città può darmi sta proprio nella meraviglia che può offrirmi».


Nei tuoi scatti è evidente la monumentalità e grandiosità dei volumi, coniugati a un senso di vertigine e alla tentazione di perdersi, sensazione che tempo fa avrebbero definito con il termine Sublime. Hai guardato a fotografi del passato come il nostro Vittorio Sella o Ansel Easton Adams?
«In generale, amo molto la fotografia di paesaggio dell’Ottocento, la trovo molto pura. Le immagini sono sorprendentemente nitide, e le cose sono inquadrate con semplicità. Io trovo che la forza sia già nelle cose (montagne, deserti, oceani, metropoli affollate) e cerco che il mio occhio di fotografo non contraddica quel senso di travolgimento e, al tempo stesso, necessità di contemplazione che provo di fronte ai soggetti che riprendo. In fondo, si tratta ancora di quello stupore di cui dicevo prima. Lo sguardo di chi guarda le cose per la prima volta. Forse, uno sguardo che ha nostalgia della propria infanzia. Oppure, lo sguardo di un esploratore. E, ovviamente, anche quello del turista. Cerco sempre di costruire un’immagine potente, che abbia una forma di classicità che duri nel tempo, al di là delle mode. Cerco di combinare la tensione compositiva dell’inquadratura con la forza suggestiva di un colpo di luce. Le mie corde non sono certo minimaliste, né davvero documentarie. Dentro di me, cerco che la fotografia sia implacabile. Come quando nel pugilato al colpo fulminante del ko non c’è spiegazione, né rimedio. Durante questo lavoro su Roma, ogni vestigia mi ha suggerito un’idea di bellezza che fa tutt’uno con l’idea di potenza. E proprio nelle pietre che resistono ho cercato una visione potente delle cose. Acquedotti giganteschi, mura invalicabili, templi, colonnati, archi, strade, ponti, statue, cippi. L’archeologia mi restituisce, appunto, lo sguardo stupito di quand’ero bambino e scatena la fantasia. La notte, poi, mi ha aiutato a convogliare in queste fotografie suggestioni diverse: cascami di studi storici, incubi piranesiani e suggestioni di film peplum».

Il tuo lavoro, prima di trovare la cromia, è stato per tanto tempo in bianco e nero. Tuttavia alcune immagini sembrano ancora pervase dalla cromia metallica delle vecchie stampe su carta alla gelatina ai sali d’argento.
«Per vent’anni ho fotografato soltanto in bianco e nero, sentendolo come una disciplina ferrea a cui non si poteva transigere. Solo il bianco e nero garantiva poesia e profondità – il colore era solo un gioco. Poi, nel 2006 ho iniziato a stampare le mie immagini in digitale e da quel momento ho cominciato a fotografare sistematicamente a colori. Ho trovato via via il mio colore, a tratti fortemente desaturato e livido, altre volte denso e carico come in un fumetto. Grazie al computer, posso ottenere quel colore bastardo, spesso innestato di grigi, che ho sempre avuto in mente. Un colore cinematografico, da reinventare ogni volta. Da vero rinnegato ammetto di aver sempre “visto a colori” ma, un tempo, solo la trasposizione in bianco e nero mi pareva desse nobiltà alla visione. Il bianco e nero è un linguaggio perfetto, sublime e autoreferenziale. La sua sostanza, fatta di memoria e struggimento, incarna il senso più autentico della fotografia e garantisce una coerenza che il colore mette continuamente in discussione. Il colore è un mare in cui perdersi:  “il mondo è a colori, e non possiamo farci niente”, dice William Eggleston».

La figura umana nei tuoi scatti è censurata, dimenticata o semplicemente non prioritaria?
«Quando una persona compare in una fotografia quella fotografia diventa, inevitabilmente, la storia di quella persona in quel momento. Parla della sua vicenda. Da spettatori siamo così coinvolti in aneddoti di bellezza, erotismo, dolore, e via dicendo. Guerra, reportage sociale, bambini, vecchi, lavoratori. Un’infinita catena di storie cui assistiamo compassionevolmente. La scelta di una narrazione di testimonianza da una parte, lo struggimento della partecipazione visiva ed emotiva dall’altra. Io, invece, fotografo i luoghi perchè mi attira una sorta di grado zero delle storie. Per me, fotografare lo spazio vuol dire semplicemente fissare quello che ci sta intorno, quel che fa da contenitore e sfondo alle nostre vicende umane. Una metropoli notturna e deserta, una landa ai margini del mondo, un antico paesaggio di rovine. La figura umana è solo evocata. Io fotografo quello che era, quello che rimane, cerco sempre le tracce del passato, di quel che avrei voluto poter vedere. Lo spazio è quasi sempre deserto, probabilmente abbandonato: la persona che amiamo ci ha lasciati, l’amico ci ha traditi, l’esercito in rotta si è dileguato… Storie invisibili o, comunque, da lasciare all’interpretazione di chi guarda. In sostanza, sono la scena e il paesaggio le cose che davvero mi affascinano, mi colpiscono e restano dentro. Semplicemente fotografo il mondo per imprigionarlo nella mia memoria. Il tesoro è costituito di ricordi. Ogni libro, ogni scatola di fotografie, non sono che questo».

 

 

 

 

 

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