Parla Bauman

C’era una sala gremita di persone, come era prevedibile, per l’ottavo appuntamento del ciclo Changes/cambiamenti, ideati dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. Negli ampi spazi ancora silenziosi del museo toscano, che riaprirà nel 2016, ieri pomeriggio ha risuonato la voce di una delle menti più influenti del nostro tempo. Il sociologo polacco di fama internazionale Zygmunt Bauman in conversazione con il connazionale Wlodek Goldkorn, giornalista fino al 2013 direttore del settimanale L’Espresso, ha parlato a lungo di vari aspetti della nostra società, da lui coniata da tempo come la società liquida postmoderna. Un postulato questo che, secondo Bauman, ha travolto ogni aspetto del nostro vivere civile, non escluso l’ambito della cultura, dell’arte e del ruolo degli intellettuali. Al contrario proprio la cultura e l’arte, come l’amore, che sono pratiche di vita sono state in maniera più evidente, conquistate e colonnizzate dai nuovi principi sovrani della nostra era, ovvero mercato e società globalizzata.

Le pietre miliari della nostra società postmoderna differiscono dalle precedenti, in cui si andava soddisfacendo i propri bisogni, il bisogno del bello nel caso dell’arte, dell’affetto, della sopravvivenza. Nell’era attuale non ci regoliamo in base ai nostri bisogni, ma in base ai nostri consumi, che i nuovi padroni come multinazionali e simili ci suggeriscono essere potenzialmente infiniti. In questo quadro anche l’arte diventa una merce. Afferma Bauman che «le accademie americane producono ogni anno più artisti e dunque più opere d’arte di tutte quelle che aveva prodotto l’intero periodo del gloriosissimo Rinascimento». La cultura è diventata una macchina che produce arte, cioè merce da consumare prima che da godere per innalzare lo spirito. In ultima analisi il mercato detta le regole. Tutto ciò da diritto a un andamento alterato, che si moltiplica senza soluzione di continuità e anche il ruolo dell’intellettuale viene radicalmente rivisto. Goldkorn, citando la decadenza degli intellettuali, da legislatori ad interpreti, chiede quale sia oggi il posto a loro aggiudicato. Non sono più legislatori come nell’età moderna che ci ha preceduto, sono adesso e ancora degli interpreti? Nemmeno questo, risponde Bauman: «Oggi gli intellettuali hanno perso anche quest’ultimo potere. Non riescono più a interpretare gli interessi culturali comuni e condivisi, ma sono unicamente umili difensori dei propri interessi professionali». La cultura ha cessato di essere, citando Pierre Bourdieu, elemento di distinzione e di innalzamento, è ed qualcosa di globale e onnivoro che abbraccia ogni sapere e si confronta con tutte le culture che incontriamo ogni giorno nel nostro trafficare quotidiano. La nostra è una società diasporizzata, dentro a ognuna ne troviamo altre migrate nella nostra.

Le conclusioni dell’incontro al Pecci si sono concentrate magistralmente sull’aspetto più difficile ed evidente della nostra epoca, come la convivenza con culture che non conosciamo e che pure ospitiamo. Le parole che Bauman ripete più volte sono multiculturalità e multiculturalismo. Quest’ultimo, sottolinea: «è un programma, quasi una speranza e un sogno auspicabile e necessario alla convivenza pacifica della civiltà odierna. Vivere nella promiscuità fisica con persone diverse da noi crea pericolo, paure e ansie. I nostri problemi sono globali. I nostri strumenti sono locali. Dobbiamo trovare un dialogo autentico per comunicare con chi non la pensa come noi. La democrazia come ideologia politica è desueta, non basta più. La più grande sfida dell’umanità oggi è inventare nuove istituzioni politiche che siano in grado di dialogare su un terreno di interessi diversi ma condivisi».

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