Eros senza fronzoli

Ilaria Facci ha iniziato a scattare un anno fa, scrutandosi attraverso l’obiettivo e ritrovandosi nelle immagini scarne, intime e toccanti dei suoi autoritratti. Le sue immagini mostrano una sensualità senza fronzoli, che passa attraverso il dolore per trasformarsi con la magia della macchina fotografica.

Cosa ti ha portato a scegliere e poi ad abbandonare la moda?

«La paura che la mia creatività non fosse sufficiente mi ha portato sin da piccola a cercare la moda. Sono nata a Roma e dopo aver vissuto fino ai 18 anni a Buenos Aires, ho lavorato come stylist a Milano nella moda. Così spesso davo a quel lavoro un valore artistico di cui non aveva bisogno, finché ho capito che pur cercando di parlare la loro lingua ero io per prima a parlarne un’altra, ero di un altro mondo e non volevo accettarlo. Quando ho accettato di cambiare tutto il mio mondo, un anno fa, ho trovato le risposte solo nella fotografia».

Alcuni tuoi autoscatti sono stati selezionati per Vogue.it.

«Vogue seleziona mensilmente fotografi per una sezione di portfolio online, alcuni scatti vengono inseriti nel cartaceo di Vogue Italia. Mi sono stupita perché a volte la censura sembra essere dovunque, invece questa volta non era così».

Come mai per te l’autoscatto diventa sbagliato?

«L’autoscatto sbagliato è uno scatto errato dal punto di vista tecnico ma soprattutto metaforico. Sono un’autodidatta che ha lavorato al fianco di grandi fotografi ma in veste di stylist, con tutt’altro ruolo, accanto a grandissimi come Mustafa Sabbagh. Sbagliato perché non conosco la tecnica, e sbagliato perché ho avuto un tumore a un occhio quando ero più piccola, questo mi porta a vedere la luce in maniera diversa da voi. Ho un campo visivo diverso. Questo fa si che gli autoscatti siano molto forti, per essere più visibili. Poi pensando all’arte e andando oltre la tecnica, grazie anche al confronto con grandi artisti, in questo ho trovato la dimensione della ricerca artistica e personale».

La tua fotografia è soprattutto una ricerca intima e personale. Come é iniziato tutto?

«Ho iniziato a farmi gli autoscatti quando ho accettato dentro di me la mia omosessualità, quando ho capito che mi ero innamorata: era un interagire con il mio corpo per capire chi fossi. Attraverso la fotografia raggiungevo risposte a domande che nemmeno sapevo di essermi posta. C’è un’energia sessuale ma non vuole essere esibizionismo, estetica fine a sé stessa o erotismo forzato».

Eppure la tua accettazione del corpo rivela una sensualità, un amore per sé stessi.

«Sì, nelle ultime in particolare sono più morbide delle prime, più cariche e cattive, faccio il nudo perché detesto i fronzoli, venendo dalla moda sono andata per contrasto, volevo togliere il più possibile. Volevo scarnificare al massimo».

Quindi da quanto tempo hai iniziato e come scatti?

«Da poco più di un anno, scatto con una Nikon, in digitale. Prima di ottobre dello scorso anno non mi ero mai fatta foto, probabilmente a causa di un rifiuto nel guardarmi in faccia e vedere il mio sguardo diverso. Questo rifiuto era fatto per difendersi, era come non specchiarsi. Spesso mi nascondo ancora la faccia, sono rari gli scatti in cui mostro il viso».

Il concentrarti sul corpo probabilmente era segno del cambiamento?

«Sì. Cerco senza volerlo un dolore del passato o del presente, un tabù che ho messo da parte. Al livello inconscio è diventato il mio espediente per tornare sull’argomento ed esorcizzarlo. Attingere alla parte più dolorosa, affrontare fotograficamente un argomento, lo fa diventare bellezza ai miei occhi».

Come scegli l’argomento, decidi prima di iniziare a scattare?

«Viene tutto fuori da un istinto e successivamente mi accorgo guardando le foto cosa c’è della mia vita in esse, come nel caso di uno scatto che è venuto fuori singolarmente dopo una sessione, ma che riguardava tutt’altro, era la presa di coscienza di una violenza subita . La fotografia per me non è una consolazione, ma è un superamento, un’elegante terapia perché quello che fotografi passa per le tue sensazioni e quello che stai vivendo. Io credo che si sviluppi un canale tra il fotografo e la foto, i nomi delle serie nascono dopo ma in maniera spontanea e lineare, sono le foto stesse a suggerirli. La macchina diventa magica in qualche modo, ti restituisce quello che sei e non mente mai».

A cosa stai lavorando adesso, porterai le tue fotografie in mostra?

«Sta iniziando tutto adesso, c’è una curatrice al nord Italia che vorrebbe portarmi a una fiera, e forse c’è una mostra in arrivo. Quello che voglio fortemente è che alcune serie, ad esempio Retinoblastoma, siano messe in vendita per finanziare con tutto il ricavato, non solo una parte, la Cancer Research UK. Voglio dimostrare, anche a me stessa, che l’arte è tutt’altro che effimera, può essere un messaggio per persone che affrontano anche situazioni difficili e trasformarle in una manifestazione positiva, in un messaggio di bellezza, e la bellezza può cambiare il mondo in modo silenzioso ed efficace. Anche quando ero in Italia avevo questo sogno, ma i meccanismi delle gallerie mi avevano inibita. A Londra ho scoperto che è più fattibile, pensa se tutti gli artisti più importanti donassero ogni anno un’opera per la ricerca. Comunicare, a prescindere dall’ego dell’artista, è importante. Comunicare che anche con una menomazione è possibile, realizzare arte significa valorizzare la propria unicità, all’inizio ero insicura ma quando ho capito il valore di questo, è diventato tutto più semplice».

Il Retinoblastoma ha compromesso in maniera irreversibile la tua visione, da uno dei due occhi.

«Sì, con l’altro occhio ho piene funzioni, ma poi mentre studiavo in accademia ho scoperto che la mia visione era più approssimativa rispetto alle altre persone, alcune sfumature dei colori per me nn sono visibili, vedo le figure in maniera più sbiadita e percepisco diversamente le distanze. Naturalmente non posso utilizzare la luce come fanno tutti i fotografi».

A chi ti ispiri?

«Molti cercando di farmi un complimento citano spesso la Woodman. Amo la storia dell’arte e credo di aver attinto un po’ ovunque, noto che inserisco dei riferimenti alle opere classiche, ancor più della fotografia».

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