Here the dreamers sleep

Andrea Mastrovito inaugura nella casa museo Hendrik Christian Andersen di Roma il suo progetto site specific. Il vissuto privato della famiglia Andersen diviene pretesto per parlare della condizione universale dell’uomo in bilico tra desiderio, rivolta e realtà. Hendrik, il fratello Andreas e sua moglie Olivia Cushing, la madre Helen e il loro grande sogno utopico di una città ideale il The Creation of world centre of communication, polo di arti, musica e scienze per un’Europa in armonia. Ad esso era destinata la produzione scultorea di Hendrik, espressione di quella retorica magniloquente tipica del fascismo. La statuaria classica nella galleria al piano terra, viene ironicamente replicata nella stanze del museo nelle riproduzioni da giardino del David, Ebe, Venere e Mercurio allegorie degli Andersen.

Mastrovito tatua la pelle bianca del cemento armato che esalta il segno grafico della matita, il disegno diventa strumento conoscitivo, in un mondo che l’artista ricrea ma non inventa. Le statue crollano sala dopo sala come «i sogni infranti di chi non si piega, in un rimando continuo tra l’utopia familiare e le grandi utopie/rivoluzioni storiche», spiega Mastrovito. Prendendo spunto da una micro cosmo privato il campo di indagine si allarga all’intera sfera umana e diventa argomento attuale che sconfina dalle pareti della casa, in un percorso giocato tra sculture e collage: dalla fionda del David di Michelangelo a quella dei guerriglieri palestinesi, dal tributo a Marat alla distruzione delle statue di Saddam Hussein, per citarne alcuni.

Hai detto che l’utopia tocca la sfera dello sperare e non del credere. Eppure nella mostra affronti l’idea della rivoluzione, cioè: qualcosa in cui credere e non sperare. Come spieghi questo contrasto?

«Il primo riferimento è L’assurdo di Camus,e la sua risposta all’assurdo stesso con la rivolta, la passione e la libertà che non hanno niente a che fare con l’utopia, che è qualcosa di mentale. La rivolta, la passione e la liberta sono qualcosa di molto fisico legate all’ambito politico. Questa mostra rischiava di diventare politica perché ci sono molti riferimenti politici (al Fascismo, a Saddam, c’è Lenin) che si ritrovano nei piccoli collage, ma la grossa passione è quella che hanno messo gli Andersen, una filosofia che crolla malamente alla fine. L’utopia è una trasposizione un po’ più borghese della rivoluzione, ma anche le rivoluzioni falliscono infatti l’ultima immagine è quella di Marat. La rivoluzione segue la corrente che interviene sul tessuto sociale, non solo su quello concettuale, e anche nel fallimento di cambiare le cose, in peggio o in meglio questo non si sa, noi ancora oggi parliamo di liberté egualité fratenité concetti non troppo lontani da libertà, passione e rivolta di Camus».

L’arte per te divide, crea pensieri diversi e quindi scontri tra opposti. Il progresso si ottiene alternando dei momenti di creazione e distruzione. La mostra termina con un atto di distruzione, quindi poi come continua?

«Here the dreamers sleep fa parte di un trittico di mostre che dopo il museo Andersen proseguirà in Francia. In realtà per me non c’è una fine proprio perchè ho una concezione della vita molto ciclica, a ogni distruzione segue uno di creazione. Il lavoro nel salone centrale del museo è diverso da tutti gli altri, qui non ho rotto le statue dopo averle disegnate, qui le statue sono state rotte e poi ho cercato di disegnare, per quanto possibile fosse, su tutti i frammenti che si erano creati, è proprio l’idea della rivoluzione che nel fallimento totale riesce a portare un’idea nuova. Quindi per rispondere alla domanda: dopo la distruzione cerchiamo di prendere i pezzi di quello che è successo e dar loro una nuova vita. Il mio lavoro nasce dall’errore, infatti i pezzi non combaciano e ho cercato di dare loro una nuova forma che dia l’idea di qualcosa che sta nascendo, una nuova città, ovviamente il sogno è fallito, però ad esempio, lavorando a questo mi è venuta l’idea per un nuovo lavoro da fare in Svizzera. È la mia fonte di ispirazione, più distruggo, più creo automaticamente. Il mio lavoro è sempre stato su più livelli, ecco perché ci sono anche i collage, l’occhio vede le statue e il disegno sulle statue, quindi c’è una forte componente percettiva, lavorare su più livelli permette di scavare e di creare un lavoro archeologico che ben si inserisce in una città come Roma. L’archeologia si basa sullo studio delle tombe e questa mostra prende il titolo dall’iscrizione sulla tomba della famiglia Andersen ”Qui dormono i sognatori”, si scava per cercare l’anima delle cose. La ricerca è sempre rivolta all’anima ecco perché parlo di umanità, non mi interessa il discorso politico, voglio scavare nell’uomo».

Parlami dei tuoi collage.

«l processo è molto simile a quello delle statue. In uno dei due collage presenti nel salone centrale del museo, ho cominciato a dipingere questi soldati americani che tiravano giù una statua, un riferimento a quello che è successo con Saddam Hussein qualche anno fa, e invece di crollare la statua, sono loro ad andare in pezzi. Quindi in questo collage c’è un controsenso che fa da pendant al lavoro in terra e all’idea che la rivoluzione distrugge chi la fa. Slavoj Zizek parla dei mediatori evanescenti, ossia quelle persone che nel silenzio spesso vengono eliminate fisicamente dalla nuova società, sono coloro che danno il la al nuovo cambiamento e che poi diventano i capri espiatori come è successo con Marat. Si ha per forza bisogno di un mediatore evanescente che causi la rivoluzione, ma quando una nuova società si è riproposta non può essere fondata su un atto violento, allora si eliminano tutte le cause visive, si nascondono i pezzi e si guarda avanti».

Fino al 17 maggio, museo Hendrik Christian Andersen, via Pasquale Stanislao Mancini 20, Roma; info: www.museoandersen.beniculturali.it