Dalle parole alle immagini

«Non c’é atto di libertá individuale piú splendido che sedermi a inventare il mondo davanti a una macchina da scrivere». Cosí definiva Gabriel García Marquez quella scrittura che gli é valsa il premio Nobel. Ed è da queste poche righe che nasce il libro Macondo, l’ultimo lavoro del fotografo e reporter sociale Fausto Giaccone. Il volume presentato nella galleria del circolo d’arte contemporanea Clou di Ragusa, ripropone The world of García Marquez. E se lui, Marquez, aveva messo in piedi quel suo mondo chinato sulla macchina da scrivere, impastando pensieri e fantasia come fossero calcestruzzo e ponendo parole su parole, Giaccone lo reinventa davanti all’obiettivo di una macchina fotografica. Non un semplice lavoro d’illustrazione, quindi, ma un racconto per immagine. L’ereditá d’intenti lasciata inconsapevolmente da Marquez a Giaccone è tutta racchiusa in uno scatto. In bianco e nero, come tutte le foto che, giá esposte lo scorso anno a palazzo Cosentini in occasione del Ragusa foto festival, sono state poi custodite nelle pagine di Macondo.

In una teca di vetro, conservata quasi come sacra reliquia, la macchina da scrivere del romanziere, la madre generatrice di tutte le sue storie, sovrastata dal ritratto del suo viso, baffuto e sorridente. In questo fotogramma le distanze geografiche e temporali si annullano e si mescolano fino a fondersi quei due costruttori di mondi nuovi, di innumerevoli altrove dove fuggire. La macchina da scrivere di Marquez e la macchina fotografica di Fausto Giaccone. In una fotografia che puó addirittura apparire banale si condensa l’essenza di Macondo: il mondo della costa della Colombia narrato da Marquez, rivisto, rivisitato e ricreato dall’occhio senza palpebra di una Reflex appesa al collo di Giaccone. Il lavoro del fotografo affonda le sue radici nel romanzo di Marquez Cent’anni di solitudine. Seppur questa informazione ci venga confidata dallo stesso Giaccone, è facilmente deducibile dal titolo stesso del volume che ne raccoglie le foto.

Macondo è, infatti, il nome della cittá fondata da José Arcadio Buendía, personaggio capostipide della famiglia Buendía, di cui Marquez in Cent’anni di solitudine racconta le vicende, accadute di generazione in generazione. Macondo è un luogo magico, che, seppur Marquez voglia collocarlo geograficamente, non ha alcun corrispettivo topografico. È un luogo inventato, frutto dell’immaginazione e del realismo magico che costituisce la materia letteraria dell’opera. Oltre che magico, Macondo, con la sua atmosfera e le sue immagini, diviene luogo mitico. E lo è anche nella testa e nel cuore dello scrittore. Makond, infatti, era anche il nome di uno dei villaggi di Aracataca, quello dinanzi al quale il Marquez bambino passava con la madre ogni volta che andava a trovare la sua famiglia. A quel villaggio, recintato dal filo spinato, non era mai riuscito ad accedere. Assume in questo modo nel suo romanzo le sembianze del villaggio ideale di quel bambimo ormai diventato scrittore. La stessa forza dell’immaginazione e del magico realismo la ritroviamo negli scatti di Fausto Giaccone. Tant’è che Gerald Martin, biografo di Marquez, dopo averli visti, ha confessato di essere stato investito da «una gamma di intense emozioni». L’incanto della scoperta nel rendersi conto che «l’universo intensamente realistico eppure assolutamente magico dei racconti e dei romanzi di García Marquez ha da oggi un corrispettivo d’immagine che si pensava dapprima irrealizzabile. Le fotografie di Giaccone, invece, riescono a ricreare le stesse atmosfere e gli stessi colori di quel mondo costruito nei libri» anche attraverso un’immagine in bianco e nero.