Alec Dawson è un ingegnere civile americano laureato a Berkeley, ha iniziato a fotografare per caso nel 2007e poi ha continuato per un’esigenza: quella di esorcizzare i suoi demoni interiori in un periodo di vita particolarmente difficile. Con la sua ultima serie Nobody claps anymore ha partecipato al festival di fotografia di Sydney Head On. Psiche e Techne convivono nella suo lavoro di fotografo, come ci racconta: «L’ingegneria mi aiuta a risolvere le questioni tecniche, ma è la parte artistica che mi spinge a cercare e raccontare la realtà che mi circonda. Le mie rappresentazioni prendono forma da stati interiori dissonanti, drammi e passioni viscerali, un’intensità che solo il nudo può trasmettere. Insieme con Nocturna, la serie Nobody claps anymore è una delle mie preferite: ispirata alle ansie e alla solitudine del quotidiano, che turbano tutti noi».
La maggior parte della fotografia di Dawson è incentrata sul nudo, una scelta che da subito ha caratterizzato in maniera decisiva la sua produzione, in bilico tra rappresentazione malinconica e fotografia erotica. A spiegare questo contrasto è proprio la negazione della fotografia erotica così come la conosciamo, contrasto che suona più come una provocazione, nelle sue parole: «Il mio lavoro è fortemente autobiografico, le ragioni per cui ruota attorno al nudo sono molteplici: fotografo il nudo per cercare nuovi approcci a qualcosa che è stato ampiamente rappresentato, perché voglio produrre arte con la A maiuscola, per il desiderio di provocare attraverso il mio lavoro e perché sono un voyeur che ama visceralmente la pornografia. Dopo aver scattato i primi lavori, ho iniziato a capire che la mia fotografia era spinta da due forti tensioni: l’esigenza di fare arte e quella di realizzare un lavoro incentrato sull’erotico. La combinazione dei due impulsi ha dato vita inizialmente a risultati piuttosto mediocri, che mi hanno convinto a separare i due aspetti: così i miei nudi sono diventati più sensuali e la mia arte è diventata più forte. Il mio intento è quello di provocare attraverso la de-enfatizzazione dell’erotico».
Un percorso piuttosto articolato e costruito attraverso fasi di sperimentazione, che trae ispirazione dalla poesia di Sally Mann, dal disordine interiore di Francesca Woodman, dalle visioni cinematografiche di Gregory Crewdson, dalla genialità eccentrica di Saudek e Araki. La forte analogia con Crewdson ha caratterizzato, in particolare agli inizi, la sua carriera. Questo parallelismo continua ad attirare l’attenzione soprattutto per l’uso della luce, ma ha preso una strada diversa: dramma ed erotismo prendono vita in stanze caotiche o totalmente spoglie, in strade deserte e paesaggi urbani scuri e decadenti, scelti per quello che sono nella vita reale e mai manipolati. La realtà è per Dawson l’unica scena possibile, come lui stesso dichiara: «Non costruisco le mie storie a tavolino, il quotidiano è la scena: le immagini prendono forma nella mia mente partendo dall’ordinario che mi circonda, così come al quotidiano attingo per scegliere i protagonisti, tutte persone comuni. Il mio approccio narrativo è finalizzato a raccontare il cosa e non il perchè, lasciando allo spettatore l’intuizione e la ricerca della storia dietro l’immagine, coinvolgendolo attivamente nel lavoro di costruzione dell’opera».