Galleria Vittorio Emanuele

L’amore per Caravaggio, Galeazzo Alessi, Picasso e Giò Ponti, il desiderio di trasmettere cultura attraverso l’insegnamento della storia dell’arte e dell’architettura: sono alcuni dei tratti distintivi di Daniela Fiocchi, progettista e direttore dei lavori di restauro della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Alla vigilia dell’Expo 2015 sono emersi i primi risultati di questo progetto che restituisce a Milano la bellezza incantevole del suo antico salotto.

Qual è stato il percorso che ha condotto ai risultati del lavoro di restauro della Galleria, dalla fase preliminare alle scelte tecniche finali?

«La Galleria è l’avanguardia della trasformazione dell’impianto urbanistico di Milano, nel quale fino ai primi del 1.800 prevaleva la dimensione medievale. Il progetto si è proposto di riportare i manufatti alla condizione in cui li volle il Mengoni: questo ha richiesto una lunga ricerca storico-artistica. Particolarmente estesa è stata anche la ricerca iconografica. Il risultato più visibile e clamoroso è il recupero della bicromia originale delle facciate della Galleria, con gli sfondati in intonaco di colore chiarissimo che muta di tono a seconda dell’ora del giorno e della luce che filtra dai vetri della volta; su di esso ora spiccano i toni caldi delle pietre delle cornici e degli stucchi decorativi che ritrovano così tutta la loro plasticità».

Quanto è complesso e sfidante, nel lavoro di un architetto, coniugare rispetto per la storia, bisogni del presente, curiosità verso il futuro?

«Considero il rispettare l’esistente e il dare a esso continuità d’uso, assicurandone il futuro, un dovere culturale di ogni architetto. Un esercizio difficile che richiede sensibilità, riflessione e applicazione rigorosissima; ma questa difficoltà è un prezzo non eccessivo da pagare in una professione di straordinaria bellezza. Mai nulla è già visto: ogni giorno tutto varia, non c’è mai monotonia».

Si è laureata a 23 anni al Politecnico di Milano, ha collaborato con gli studi di architettura più importanti della sua città: Belloni, Sottsass, Aulenti, Mendini. L’amore per Milano è evidente: come è cambiata la città, ai suoi occhi, in questi anni?

«Per Milano nutro un grande amore, un grande rispetto e una profonda considerazione razionale, proprio da architetto: è una città che ha saputo, sempre e in ogni tempo, anche in quelli difficili, rinnovarsi senza perdere la propria memoria. Più di altre essa è, e mi piace prendere in prestito le parole di Mumford, “la città che rappresenta lo stampo in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli uomini, dando, per virtù dell’arte, forma durevole a momenti che altrimenti sarebbero svaniti”. Milano è una città in continuo, profondo rinnovamento che, tuttavia, rimane se stessa, per questo la amo».

Qual è il miglior augurio che un architetto, oggi, possa rivolgere alla propria città e al proprio paese?

«L’augurio è di avere più italiani che camminano, che alzano gli occhi, guardano e imparano a osservare il bello che li circonda nel quotidiano, a ogni passo ritrovando lo stupore. La bellezza è un formidabile educatore e anche un potente originatore di energie nuove e positive. Un gesto semplice come camminare per le proprie città e osservare ciò che ci circonda può essere il suscipe della rinascenza morale e materiale che tutti auspicano ma che può venire soltanto da tutti e da ciascuno di noi».

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