Mito e paradigma

Roma

La percezione che il 1969 sia stato un anno decisamente epocale è facilmente dimostrabile. Al fianco del festival di Woodstock, ad Abbey Road dei Beatles e a The Godfather di Mario Puzo, When attitudes become form: works – concepts – processes – situations – information. Live in your head si innesta energicamente e si pone come primo grande tentativo europeo di inventariare le nuove tendenze artistiche di allora, dall’arte processuale e concettuale, all’arte povera e ambientale. Basta dare uno sguardo anche parziale alla lista degli invitati di Harald Szeemann per accorgersi di uno stato dell’arte fortemente sfaccettato: Carl Andre, Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Richard Artschwager, Eva Hesse, Hans Haacke, Sol LeWitt, Richard Long, Yves Klein, Joseph Kosuth, Walter De Maria, Michael Heizer, Robert Morris, Bruce Nauman, Claes Oldenburg, Dennis Oppenheim, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Richard Serra, Robert Smithson, Jannis Kounellis, Mario Merz, Gilberto Zorio, Lawrence Weiner.
L’equipaggio szeemanniano viene ambiziosamente rivestito di un ruolo decisivo, in un periodo in cui il malcontento e le contestazioni giovanili la fanno da padrone, e Attitudes rappresenta il concretamento, in ambito artistico e intellettuale di quella ricerca spasmodica di libertà espressiva, fondamento orgoglioso e principio imprescindibile di quei tumulti; tuttavia, lungi dall’essere interpretati alla stregua di idoli in una battaglia comunque politica, dimensione lontana dai mirini della maggior parte, i 69 artisti di Berna recitano la parte di valida alternativa alla fede nel progresso tecnologico, e lo fanno attraverso un’apparente opposizione alla forma, un forte impegno personale ed emotivo, un offuscamento dell’interesse nei confronti del risultato rispetto al processo creativo, sul quale vengono puntati i riflettori, e nella maggior parte dei casi attraverso l’utilizzo di materiali poveri, tradizionalmente considerati distanti anni luce da una possibile valorizzazione artistica.

A Berna l’obiettivo perseguito è innanzitutto dare forma ad atteggiamenti interiori attraverso il disimpegno dalla filosofia della pura creazione di oggetti, mediante la visualizzazione e la sottolineatura del processo creativo, in direzione della costruzione di un nuovo ”alfabeto di forma e materia” (Trini). Szeemann veste così i panni di un araldo schierato in prima linea al fianco degli artisti nella battaglia contro la subordinazione della processualità nei confronti della produzione. La novità del metodo szeemanniano consiste in una trasformazione dello spazio espositivo, non più soltanto luogo di mera esposizione di opere, ma vero e proprio crogiuolo di esperienze creative, parte integrante di un’opera che conosce e approfondisce il suo carattere di site-specificity e, particolare ancor più interessante, in un affiancamento partecipativo della figura del curatore a quella dell’artista che quindi si concreta in questo sodalizio spesso simbiotico tra due profili, il cui posizionamento, nella logica di una gerarchizzazione di ruoli oggi probabilmente superata, avrebbe accolto più facilmente un tradizionale paragone tra la figura del regista (curatore) e quella dell’attore (artista).

 

Articoli correlati