Mi sono sognato il treno

Poteva capitare, nei paesi dell’alta Irpinia, che qualcuno ti apostrofasse con una frase, magari accompagnata da un coltellaccio spuntato da sotto la giacchetta: ma che ti sei sognato il treno? Era meglio lasciarlo perdere quel sogno impossibile, fuga o amore che fosse, lasciar correre la vita di tutti i giorni e restare barbicati alla terra aspra e magra solcata dall’Ofanto. Un paesaggio western che non a caso ha dato i natali al padre di Sergio Leone, Vincenzo (in arte Roberto Roberti), dopo essersi concessa gli ultimi fuochi della conquista garibaldina del Regno del Sud. Così da questa roba ancestrale è saltato fuori un festival dell’impossibile, con tanto di locandina disegnata da Ivo Milazzo, il Calitri Sponz Fest, dove dal 20 al 31 agosto nella spenta tratta Avellino-Rocchetta, nove paesi dell’alta Irpinia e un pezzo di strada ferrata dimenticata degno di un paccheri-western tornano per la seconda volta al centro di un percorso a bassa velocità per raccontare il mondo dello sposalizio e quello del treno. Due viaggi del possibile per sfuggire a un solo destino. E chi poteva essere il padrino patrono di questa pensata se non un personaggio d’eccezione, sannita d’adozione, come Vinicio Capossela? Uno che da piccolo subiva il fascino dei treni e all’alta velocità preferisce una mobilità che faccia riflettere.

In berrettaccia e con un’aria da ferroviere dismesso, racconta: «Dalla mattina alla notte camminate e racconti sui binari, trenini per bambini, bivacchi da campo, proiezioni, incontri, concerti, feste di paese. Si inizia il 20 con il concerto dei Los Lobos, il 21 i Tinariwen, il 22 si prende la transiberiana. Si prosegue per stazioni fino al 27». Ma l’appetivo vien mangiando e dalla camera da letto alla camera da presa il viaggio è breve, così «dal 28 al 30 si lascia la ferrovia e si sale a Calitri, il paese dello Sponz Fest. Tre giorni di Calitri Sponz Film Fest, il primo concorso per film dedicati all’unione e allo sposalizio. Incontri, ricette di cucina, barberia, giochi. Film dal pomeriggio alla notte: amatoriali, originali, totali, introvabili su schermo gigantesco, in collaborazione con la cineteca di Bologna. Il 30, premiazione con una giuria spettacolare e inattesa e gran concerto con la Banda della Posta, a seguire sponzafesta della notte. Il 31 addio ai binari con Giovanna Marini». Insomma, per dirla ancora con le parole del paroliere e (in)cantautore, «non mancate a questa occasione di scoprire la terra dell’osso, nella stagione in cui le stoppie di grano raccolto si tingono a strisce di nero, come la coda della malogna. Portate la busta, prendetevi la bomboniera. Sogniamoci il treno!». Non poteva mancare una parte dedicata all’arte contemporanea, Sponz arti, curata da Mariangela Capossela, sorella dell’artista, con The last gestures, una videoinstallazione di Adrian Paci. Tutti i dettagli e le info su www.sponzfest.it e sulle pagine social dell’evento e di Vinicio. Un’esperienza nuova persino per lui.

Dal palco all’organizzazione del palco, da artista a direttore artistico. Cosa scatta a una certa, il bisogno di esprimersi in maniera diversa? 

«No, no, nessun bisogno, è una cosa terrificante, ma è molto utile sapere che c’è dietro un evento, ci si confronta con tante realtà del mettere insieme le cose. Non è un’esigenza ma una volta che uno ha un’idea deve misurarsi con una serie di problemi, capire come funzionano i finanziamenti, le amministrazioni locali, cercare di condividere con altri artisti un immaginario, un sogno. È un lavoro completamente diverso».

Sposalizi, non matrimoni, tieni a specificare, e treni: che filo rosso li unisce?

Beh, sui matrimoni non sono ferrato, gli sposalizi invece durano un giorno solo. In quei paesi all’epoca il treno era conseguente agli sposalizi, perché se ti sposavi poi dovevi prendere il treno, per forza. Ma non aspettavi neanche la luna di miele, emigravi. Sono due cose che segnano profondamente una comunità: lo sposalizio è il rito fondante, il treno è la comunità mobile, la gente che si porta appresso la sua storia. Però questo era vero fino a qualche tempo fa, adesso è differentemente vero. Sono anche due grandi sogni, sia il viaggio che lo sposalizio. Tutte e due richiedono ottimismo e spesso nascono da una necessità».

Il tuo sposalizio con l’Irpinia.

«Per me è una terra mitica, ancestrale, un posto dove la terra ha ancora una grosse voce in capitolo, sia perché la presenza umana è ridotta sia perché sembra quasi ignorare la presenza umana coi terremoti, ogni tanto se la scrolla di dosso. A me piace questo rinnovo ancestrale. Credo che nel minuscolo si nasconda il gigantesco, a patto di stare fermi. Certi territori sono soltanto un paesaggio dietro a un finestrino ma è nel dedicarci tempo che le cose iniziano a parlare. Per questo facciamo un festival di dieci giorni, distante dal concetto di consumo. Viaggiare si è trasformato in turismo di massa, vedi queste carovane di persone che arrivano per due ore, consumano il territorio e se ne vanno, così, senza nutrirsi di nulla. E questo modifica anche le città, i centri storici, trovi strutture enogastronomiche discutibili in certi contesti. Invece fare l’esperienza di qualcosa significa passarci un po’ di tempo. Insomma, questi eventi su una ferrovia dismessa sulla quale bisognerà camminare a piedi sono un modo di relazionarsi al territorio che può darci molto, ma bisogna anche concedergli qualcosa. Anche questa performance di Adrian Paci non è una cosa che fa l’artista ma si fa insieme, è un’occasione di comunità».

L’ultima cosa: dopo il rebetiko che ci aspetta, a quando il prossimo lavoro?

«Farò un disco di canzoni molto rurali, legate a una certa ruralità».

Per tornare alla terra.

«La terra non ci lascia. Siamo noi che ce ne andiamo».