Rotiroti ovvero l’acqua

È forse in quella parte lontana dal realismo che possiamo rintracciare la migliore mano di Nicola Rotiroti. L’artista, nato a Catanzaro il 29 giugno 1973, ha sviluppato un linguaggio pittorico a cavallo fra astrazione e naturalismo. Risultato certo aiutato dal tema (l’acqua) ma perseguito dall’artista con fare naturale, come se fosse una conclusione scontata. Un uomo, una donna, un bambino perché non è importante il chi ma il dove: l’acqua, appunto. Corpi immersi in quella che sembra una piscina sono il fil rouge di tutta la produzione di Rotiroti, un’ossessione reale declinata in mille modi possibili. Credere, in ogni caso, che il soggetto sia l’essere umano sarebbe un errore, il protagonista delle tele è l’acqua, regina incontrastata di tutti suoi lavori, punto di partenza e punto ultimo. Avere a che fare con una materia del genere significa accettare in partenza le distorsioni di forme e colori che la materia stessa porta con se come il più bello degli effetti collaterali. Il patto fra Rotiroti e l’acqua è incondizionato e il pittore prende sulla punta del suo pennello ogni regalo che il liquido regala o impone.

Astrazione, dicevamo, è il più gradito dei mali. Astrazione intesa come presa di distanza da un modello di rappresentazione votata al perseguimento di un ideale di bellezza classico, astrazione intesa come (e forse più consono) l’antigrazioso della nostra unica avanguardia: il Futurismo. È dove finisce il quadro che comincia il lavoro, ai bordi, decentrata la figura comincia a sfaldarsi dal movimento lento ma inesorabile dell’acqua, irriconoscibile il soggetto si mostra distrutto e riformato sotto un insieme di colori che vagamente ne ricordano l’originale. Rotiroti se in tutta la sua carriera precedente ha diviso la tela fra realismo del corpo e deformazione dello stesso attraverso il riflesso dell’acqua, è solo nella sua più recente produzione che fra i due ha deciso di continuare le sue ricerche sull’astrazione. Ne sono un esempio le tele esposte alla galleria Ventinovegiorni dove l’artista rinuncia al dato reale. «Prima scattavo delle fotografie sott’acqua, non vedendo bene ovviamente e un po’ a caso. Successivamente tentavo di riportare le foto migliori sulla tela. Ora ho abbandonato questo metodo e mi rivolgo alla tela senza nessun dato concreto se non gli stralci di quello che è stato». Per i suoi ultimi lavori Rotiroti ha davanti solo una tela bianca e la sua memoria: la possibilità di entrare definitivamente nel mondo della pittura.

Lascia così al passato le regole apprese all’accademia, abbandona i suoi corpi fatti di carne e riflessi che tanto assomigliano alla lezione di un Renoir e si concentra sul riflesso, sulla deformazione, sull’antigrazioso. Non ci sono più riferimenti nelle ultime opere, l’acqua è suggerita vagamente da uno sfondo piatto e azzurro, non c’è più la carne ma solo il suo riflesso distorto, per forza di cose effimero. È un percorso durato dieci anni, lento, come con lentezza dice di comporre le sue tele. «Il mio è un mondo visto da dentro verso fuori, da dentro l’acqua verso la terra». E allora non potrebbe essere altrimenti, non ci potrebbe essere nessun altro modo per lordare quella tela bianca. È un cammino che ricorda Monet, partito alla ricerca della luce e approdato all’astrattismo con le sue ninfee. Rotiroti, un’ultima cosa, perché proprio l’acqua? «Ne ho paura, ho paura di non vedere».

Fino al 12 luglio, galleria Ventinovegiorni, via di Montoro 3; info: www.ventinovegiorni.it

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