MarioFani

Roma

Mario Fani, seguendo il tempo come sulla riva di un fiume, ha sviluppato negli anni un’attenzione crescente al silenzio che già era connaturale al suo fare sin dagli esordi. Mario privilegiava un racconto ridotto a «suggerimento»: presentandoci dipinti che trasfiguravano gli ambienti, i mobili e gli oggetti della sua dimora nella campagna del Casentino; trasfigurando, dicevo, attraverso l’esibizione della consapevolezza del silenzio pittorico, e del magistero, sempre più acquisito e dimostrato, del gioco chiaroscurale, di luci e ombre, naturali e artificiali; suggerimento, dicevo sempre, relativo alla presenza umana che mai compariva, mai compare, ma sempre è dietro la porta di quegli ambienti, appena uscita, o in intenzione di entrare. Poi gli oggetti hanno come preso il sopravvento, quasi fossero personaggi in cerca d’autore, hanno ottenuto la posizione protagonistica nella commedia pittorica che Fani ha cominciato a produrre, nell’esercizio ossessivo di una compenetrazione nelle urgenze di poveri oggetti: ciotole, coltelli, vasi, caffettiere, bicchieri di lieve trasparenza, bottiglie, pentole di coccio, e pochi frutti appena colti nella propria campagna, due limoni, due piccole mele, o meline, una cipolla a simbolo di una povera cena. La ricerca pittorica di Fani, però, non è morandiana, non vi è ricerca di un estetismo geometrizzante nelle sue vite silenti: gli oggetti sono quello che sono, egli affida al silenzio e ai riflessi della luce il disvelamento (o, a seconda dei casi, il nascondimento) dei loro segreti, dei misteri che senza saperlo rivelano ai nostri occhi, alla nostra lettura. Protagonisti che ignorano la portata della loro presenza, una semplicità che si fa complessa metafora del nostro stare, umano, qui tra le cose e gli affari della vita. Sono gli oggetti a dircelo, queste vite silenti che possono ricordare al nostro cuore similitudini con le nostre mestizie, le attese, le calme speranze, nella ritmica di un giorno che si sta concludendo e di un altro che sta arrivando.

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