Dall’opera al suo creatore

“Un giovane pittore, Piero Manzoni, di trent’anni, è morto per paralisi cardiaca nel suo studio al pianterreno di via Fiori Chiari 16. Il giovane pittore è stato colto da malore, mentre era solo. Ha tentato forse di chiamare aiuto, ma non è riuscito a farsi sentire. Dopo sei ore è stato trovato morto dalla madre e dalla fidanzata che, dopo avergli telefonato, spaventate del lungo silenzio, sono accorse in via Fiori Chiari. Aperta la porta hanno trovato Piero Manzoni ormai cadavere. Un medico ha fatto risalire la morte del giovane pittore a circa sei ore e l’ha attribuita a paralisi cardiaca. Il giovane artista soffriva da tempo di una forma cardiaca. Piero Manzoni era noto tra i pittori d’avanguardia”. Il testo scarno pubblicato in un trafiletto del quotidiano milanese Corriere d’Informazione datato 7 luglio 1963 riporta in maniera netta, senza alcun tipo di dissertazione celebrativa, la morte di Piero Manzoni. Le poche righe parlano di un giovane trovato senza vita nel suo studio, un giovane che a soli trent’anni rivoluzionò il linguaggio contemporaneo.

Narrare del percorso artistico di Manzoni vuol dire in prima istanza conoscere e sondare l’humus culturale milanese degli anni cinquanta e sessanta. Milano è una città in fermento, i circoli intellettuali, le riunioni tra artisti, poeti e scrittori, la critica militante, ogni aspetto della vita cittadina racchiude in sé una parte fondamentale per lo sviluppo espressivo di Manzoni. Nel famigerato bar Jamaica in via Brera un ragazzo “con camicia bianca e pullover” inizia a farsi strada tra la vecchia generazione di artisti cui Lucio Fontana è il capostipite e l’indiscusso padre putativo di Piero.

Nel 1955, anno in cui Manzoni comincia assiduamente a frequentare gli ambienti d’avanguardia, le figure di spicchio e acclamate sono Carrà, Casorati, De Chirico, Morandi, Sironi, ma è nell’arte nucleare di Baj e Dangelo che Manzoni comincia a muovere i primi passi. Il debutto non tarda ad arrivare, nel 1956 con la partecipazione al premio San Fedele Manzoni espone per la prima volta a Milano, presentando due opere intitolate Windflower e Milano et Mitologia in cui l’artista mostra una sorta di informalismo di transizione dove il germe estetico delle opere nucleari è in qualche maniera una primordiale volontà di dichiararsi da subito protagonista del nuovo dibattito artistico. La ricerca di Manzoni prosegue senza sosta, nelle collettive con Baj e Fontana, esprime il suo voler essere deus ex machina di un nuovo movimento, di un inedito concetto estetico che nulla ha a che vedere con i maestri della vecchia generazione artistica. Manzoni diviene enunciatore e teorico di questa visione alla ricerca dell’immagine, comprende l’importanza di dare fondamento alle sue riflessioni concettuali e conquista, attraverso i suoi scritti, un’indipendenza di pensiero che crea e fonda una mitologia espressiva e letteraria.

“Tappezzieri o pittori: bisogna scegliere.” L’enunciato è quanto mai dirompente; la frase tratta da Contro Lo Stile è una lettera di intenti, il primo passo verso la teorizzazione degli Achrome. Ridurre Manzoni al suo rapporto con Milano è quanto di più errato, Piero cerca in Europa il dialogo fondante, vede in Yves Klein un nemico da sfatare, ma anche un artista dalle grandi intuizioni, a partire dalla creazione della serie di monocromi. La superficie acroma è l’ossessione estetica Manzoniana, il tema portante della sua eccellenza cognitiva. Manzoni comprende sin da subito che la specificità di un’opera d’arte non risiede nella sua qualità tecnica bensì nel mito che essa rappresenta. Manzoni non produce opere d’arte, egli stesso è opera d’arte. Fiato d’artista, Merda d’artista, le sculture viventi, non fanno altro che alimentare questo mito, il concetto è semplice e lineare: dare al collezionista, al pubblico, allo spettatore la convinzione che si possa identificare “l’elemento artistico con il corpo stesso dell’artista”. La negazione tecnica è presto compiuta, esiste solo il pensiero, esiste solo l’autore che pensa e che diviene un oggetto di devozione, una reliquia da possedere e adorare. Il velo è stato strappato, questo è il momento del non ritorno, della volontà di perseguire una strada complessa, di rincorrere, attraverso la formulazione critica, l’intento di fare arte anche attraverso il concetto. Nasce nel 1959 Azimuth, una rivista curata da Enrico Castellani e Piero Manzoni, l’anello mancante di un processo in continua evoluzione. Azimuth raccoglie la ricerca d’avanguardia, narra il fervore e l’attivismo di questa nuova generazione artistica, si confronta con i movimenti espressivi europei.

“Il verificarsi di nuove condizioni il proporsi di nuovi problemi, comportano, con la necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure; non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale. Per questo io non riesco a capire i pittori che si pongono a tutt’oggi davanti al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme. Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica. Il quadro è finito; una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta a una specie di recipiente. Perché invece non vuotano questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?” Viene alla luce con queste parole, pubblicate da Manzoni su Azimuth nel 1960, una nuova e rivoluzionaria concezione estetica, in questo frammento si intuisce l’evoluzione di un pensiero che ha compiuto la sua maturazione, Manzoni è ormai un protagonista acclamato dell’orizzonte nazionale ed internazionale, basti pensare che Azimuth verrà tradotto in francese, inglese e tedesco. Questa nuova concezione diviene il manifesto espressivo degli Achrome, la serie di opere bianche le cui caratteristiche peculiari risiedono nell’approccio laico della materia, la purezza della forma diviene il contenitore assoluto dell’infinito, l’opera non è più frutto di un procedimento tecnico ma l’essenza di un processo mentale e cognitivo.

Gli ultimi anni di vita di Piero Manzoni vengono segnati dall’utilizzo di molteplici materiali: dal cotone idrofilo al panno fino a giungere al polistirolo espanso. Nel 1961 le Socle du Monde, ovvero la base del mondo, segna uno degli ultimi esperimenti dell’artista, la rottura definitiva, lasciare che la Terra divenga essa stessa un’opera d’arte. La morte precoce, l’infarto che ha stroncato il genio, le parole commemorative di Lucio Fontana sono gli ultimi segni lasciati dal tempo: «non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere». Un testamento eloquente, le uniche parole che possono descrivere realmente il genio di Piero Manzoni.

 Dal 25 marzo, Palazzo Reale, piazza del Duomo 12, Milano; info: www.comune.milano.it/palazzoreale

 

Articoli correlati