Steve Jobs, tormento ed estasi

«Se ti vuoi godere una bella bistecca non entrare mai in un mattatoio», recita un proverbio statunitense che può essere l’epitome del testo messo in scena per la prima volta in Italia al teatro Vascello: Tormento ed estasi di Steve Jobs, monologo del 2010 di Mike Daisey. L’autore statunitense, noto per monologhi non tradizionali o estemporanei, o per le one night only performances, tratta temi intensi come la perdita, la trasformazione e il desiderio di autenticità nell’era dei network o la questione della democrazia negli Stati Uniti di oggi. Col monologo su Jobs racconta la globalizzazione attraverso l’epopea dell’azienda di prodotti di elettronica Apple, che si è impossessata del mercato e «ci ha costretto ad aver bisogno di cose che non sospettavamo nemmeno di volere». Il demiurgo del miracolo imprenditoriale è Jobs, vero e proprio guru del marchio, appassionato di design e spietato negli affari, capace di trasformare ogni prodotto in oggetto di desiderio e di culto.

Il monologo, tradotto da Enrico Luttmann e interpretato con ironia da Fulvio Falzarano, mostra il baco ben nascosto dentro l’affascinante mela, simbolo della Apple. L’attore impersona il tipico appassionato maniacale di tecnologia, acquirente seriale delle ultime invenzioni dalla cittadella industriale di Cupertino, vero adepto del culto Mac, che riserva una stanza solo per custodire come un figlio il suo ultimo computer, perennemente vittima degli aggiornamenti forzati. Passa giornate intere dietro all’elettronica, tanto che, quando ha problemi tecnici coi nuovi aggeggi ha un barlume d’autocoscienza: «sono solo contro la Apple, chi credi che vincerà alla fine?». Un giorno, nell’ultimo modello di cellulare nota che sono rimaste in memoria delle foto, scattate nella fabbrica per testarlo. Chiedendosi come e dove sono creati quegli oggetti scopre il dietro le quinte delle meraviglie Mac. Siamo catapultati a Shenzen, cittadina cinese nata attorno agli stabilimenti Apple. «Quante volte noi desidereremmo che più cose fossero fatte a mano?». Non sappiamo che quelle miriadi di minuscoli componenti dei nostri giocattoli informatici sono assemblati in una fabbrica dove lavorano minorenni, a contatto con sostanze tossiche che portano disturbi di tremore. Non sappiamo che a Shenzen sono violate le regole di sicurezza sul lavoro, che la manodopera è controllata da vigilantes, sorvegliata da telecamere e che, per bloccare il dilagare di suicidi tra gli operai, la Apple ha posto delle reti alla base degli edifici.

Il dito di Daisey è puntato anche su di noi, ingenui consumatori, affascinati dall’eleganza di tablet e cellulari, che dimentichiamo che « il modo in cui una cosa viene fatta è parte del progetto stesso». Per quanto un portatile Apple possa essere bello, Daisey ci mostra che «è il sangue che zampilla tra i circuiti». «Stasera- dice Daisey – è come un virus». Quello che avete scoperto sui vostri apparecchi resterà dentro di voi come un tarlo, ma è un bene perché il sapere rende liberi. Daisey racconta ascesa, caduta e di nuovo ascesa di Apple, ma senza oscurare i talenti straordinari di Jobs, l’uomo che ha avuto il coraggio di pensare differente, costruendo passo dopo passo una carriera che lo inserisce nei manuali di storia come un genio rivoluzionario, capace di seguire il proprio intuito e dedicare tutto se stesso a un lavoro che amava. Torna in mente il celebre discorso pronunciato dal guru agli universitari di Stanford, in cui consegnava ai ragazzi le chiavi del futuro raccomandando loro, con esempi di vita vissuta, di perseverare con fiducia, cercando di restare sempre affamati e folli.

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