Galimberti si racconta

Le fotografie di Maurizio Galimberti registrano l’istantaneità dello sguardo, i suoi mosaici costruiti attraverso l’utilizzo di polaroid rispecchiano la volontà di voler narrare allo spettatore una storia: la verità di un incontro, l’interiorità di una persona, le prospettive ardimentose di un paesaggio. In questo procedimento tecnico ed estetico l’artista mantiene in vita la poeticità del mondo circostante attraverso la testimonianza di chi è stato soggetto delle sue opere, un lirismo che lascia spazio al sentimento di indefinito, a una sorta di sospensione che accompagna le immagini e che investe l’osservatore di un piacere latente, di un tessuto emozionale che si basa anche nella ricerca di brandelli di assenza. Maurizio Galimberti è un maestro della fotografia contemporanea, un artista che ha costruito il proprio linguaggio attraverso la sperimentazione visiva ed estetica. In una lunga chiacchierata Galimberti ha sondato le origini del suo immaginario, ci ha narrato come la composizione di un’immagine sia frutto di un procedimento tecnico ed emozionale.

Nel testo scritto da Jean Baudrillard intitolato “È l’oggetto che vi pensa” il filosofo francese parla della fotografia prendendo in considerazione il punto di vista dell’oggetto, in particolare annota nelle ultime righe del saggio: “La magia della fotografia sta nel fatto che tutta l’opera la fa l’oggetto. I fotografi non l’ammetteranno mai e sosterranno che tutta l’originalità risiede nella loro interpretazione fotografica del mondo. In tal modo fanno brutte foto, o foto troppo belle, confondendo la loro visione soggettiva con il miracolo riflesso dell’atto fotografico”. Cosa ne pensi in merito ad un’affermazione del genere, è davvero l’oggetto che fa l’opera?

«C’è sempre un’estetica fondante, l’oggetto conta, ma è il punto di vista del fotografo che costruisce l’immagine. Felice Casorati sosteneva che gli oggetti diventano ossessioni ma se svanisce il punto di vista del fotografo non esiste più poetica. Penso che la frase di Baudrillard sia piuttosto una provocazione, un’elucubrazione filosofica».

Che cosa ti ha mosso verso la fotografia, è un sentimento latente che hai sempre coltivato o c’è stato un momento in cui hai sentito l’esigenza di approcciarti al mezzo fotografico?

«Sono cresciuto in orfanotrofio fino all’età di 5 anni e ho sempre cercato di cancellare la memoria. Della mia infanzia non ricordo quasi nulla ho come dimenticato quel lasso di tempo. Ho costruito un percorso visivo perché sono sempre stato affascinato dalla fotografia. Mio padre adottivo aveva un’impresa edile e quando andavo nei cantieri a trovarlo mi piaceva utilizzare uno strumento che misurava i piani, una sorta di binocolo dove guardavo il mondo dietro un obiettivo. Quel piacere l’ho scoperto approcciandomi alla fotografia, iniziai a scattare a 17-18 anni, all’epoca era semplicemente una liberazione giocosa ed emotiva. Andavo in camera oscura a sviluppare i rullini conscio anche dei primi esperimenti fallimentari in cui non riuscivo a fissare correttamente le immagini. Il punto di svolta nel mio percorso professionale arrivò grazie a Cesare Cassina, fondatore della storica azienda di mobili, dove cominciai a scoprire il design e compresi che era quel tipo di fotografia legata a valori artistici che volevo intraprendere. Mi interessava il procedimento tecnico ma avevo un rapporto conflittuale con la camera oscura, non mi piaceva passare del tempo in quel luogo per questo motivo a 27 anni iniziai a scattare con le prime macchine polaroid. Nella prima polaroid fotografai mio figlio, fu un tentativo fallimentare ma compresi le potenzialità di questo mezzo. La polaroid rappresenta una temporalità vorace: tutto e subito. Sono cosciente di essere un mangiatore di immagini».

Sezionare l’immagine, vivisezionarla scomponendo i soggetti che ogni volta racconti, da cosa deriva questo processo mentale ed estetico?

«All’età di 17 anni mio padre voleva che seguissi le sue orme, diventare geometra per poter prendere in mano la sua impresa. In quel periodo lo aiutavo e ricordo che ero abituato a sezionare e calcolare i tralicci che reggevano i ponteggi utilizzati per le ristrutturazioni edili effettuate durante i lavori. Scomporre era divenuto un procedimento meccanico della mia mente, il senso dello spazio l’ho appreso in questa maniera. Le foto che scatto vengono scomposte dall’alto in basso, da sinistra a destra. Non utilizzo cavalletti o altri strumenti di sostegno, viene realizzato tutto manualmente».

 Quali influenze o retaggi storico artistici hanno contaminato i tuoi lavori? A prima vista le tue fotografie sembrano richiamare un certo sentimento che si avvicina alla pittura impressionista e al pointillisme di Seurat e Signac.

«Le influenze sono molteplici: dalla pittura di Toulouse-Lautrec al cinema di Wim Wenders. Sono partito dall’ossessione verso la pittura futurista e il surrealismo di Man Ray ma anche verso i ready made di Duchamp. Ho cercato di tenere a mente l’idea di movimento e di velocità perpetuata da Boccioni, cerco di cogliere nell’oggetto il movimento contaminandolo con la mia intima e soggettiva visione del tempo».

 Diversi sono i personaggi che hai ritratto, penso alle grandi star Hollywoodiane, da Johnny Depp a Robert De Niro, ma chi ha lasciato una testimonianza profonda nel tuo lavoro?

«Aver fotografato scrittori come Lalla Romano, Norberto Bobbio, Dario Fo è stata un’esperienza affascinante. Gli scrittori sono persone che vivono delle loro ossessioni, delle loro sofferenze. Il rigore di uno scrittore è esemplare. Nel ‘94 fotografai Lalla Romana aveva 88 anni, le dita consunte dalla tintura di iodio perché le venne un’unghia incarnita a forza di tenere in mano la penna. In quella donna vidi molta sofferenza, aveva pubblicato un libro intitolato “Nei Mari Estremi” dove parlava del rapporto con suo figlio il quale dopo aver letto lo scritto non le rivolse più parola. Quell’allontanamento forzato fu devastante, in quegli scatti narrai tutto il suo dolore. La casa in cui abitava era colma di ricordi: c’erano i quadri di Felice Casorati di cui fu allieva, i manoscritti di Sciascia, di Moravia, le foto di Cesare Pavese che raccontavano un amore non corrisposto, si dice che Pavese fu per lei che si suicidò. Una donna da cui ho tratto grandi insegnamenti. Norberto Bobbio, invece, era un uomo entusiasta della vita, possedeva una vitalità imparagonabile per un uomo di 85 anni. Gioioso, sorridente, è un ricordo indelebile. Ed infine Dario Fo, non lo amavo, l’ammetto, anzi prima di conoscerlo lo detestavo, ma poi fu una vera scoperta. Un uomo incredibile dall’estro senza eguali, lui è lo Shakespeare del Novecento».

 Cosa cerchi in un ritratto, quale procedimento mentale si innesca quando sei dinnanzi ai soggetti delle tue fotografie?

«Cartier Bresson sosteneva che bisogna cogliere le persone nella loro relazione con se stessi, cioè nel loro silenzio. Nei miei ritratti cerco la poeticità, l’interiorità, riesco a creare un dialogo silenzioso. Le mie fotografie non sono accademiche, c’è sempre qualcosa di indefinito, di socchiuso ed è questo che secondo me bisogna lasciare in un’immagine: il senso di sospensione. Delacroix affermava che il bello della pittura risiedesse nel suo sentimento di imprecisione, nel lasciare allo spettatore qualcosa di poetico, far viaggiare le persone dentro il proprio immaginario. Bisogna raccontare i personaggi lasciando qualcosa di sospeso, una percezione quasi di smarrimento che rimane ferma nella memoria perché non definita. L’ultima foto di Luigi Ghirri ritrae un canale immerso nella nebbia, un luogo indistinto, una testimonianza silenziosa di cosa potrebbe esserci al di là di quella soglia, è uno spazio dell’assenza, il lirismo che contraddistingue la fotografia».

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