La porta oltre il segreto della vita

Claudio Parmiggiani, noto artista emiliano, famoso per le sue Delocazioni, vale a dire opere e ambienti di ombre e d’impronte, realizzate con la polvere, il fuoco e il fumo, realizza una bellissima porta in bronzo, in occasione dei mille anni della fondazione del sacro eremo di Camaldoli. È la porta bella, speciosa o porta filosofica. È la porta della bellezza, dell’ultraterreno, un miracolo nel triste panorama dell’arte religiosa contemporanea, così vuota e insignificante. Incastonata in una splendida cornice rinascimentale, la porta sembra sia da sempre appartenuta a quel luogo, come se nascesse naturalmente dal suo respiro, dalla sua memoria. Anzi, appare come la sua ultima testimonianza. Si affaccia sul bosco, dove incessante si alterna il ritmo della vita, nell’alternanza delle stagioni, nello scorrere del tempo. È una porta particolare. Non è infatti realizzata per essere aperta, ma per restare chiusa, come per conservare un segreto. In questo senso, Parmiggiani continua le sue riflessioni sul silenzio. Una porta che non si apre vuole è come se volesse custodire un mistero. Come se chiedesse di approfondire una ricerca, il senso stesso del nascere, del morire. E tutto, nella porta, parla dell’ignoto che l’uomo è a se stesso. Come dice l’artista: «La porta invisibile, attraverso la quale usciamo dal mondo ed entriamo in un altro mondo dove si cominciano ad intravedere la bellezza, la sofferenza e la verità». In questo senso, la porta si offre a noi come uno specchio che ci interroga sul senso ultimo del nostro destino.

Nella parte che si affaccia all’esterno, a sinistra, tutto richiama la morte. Un albero scavato appare come mangiato dagli insetti, in dissoluzione. Tutto sembra parlare di erosione, di fine, di morte. Di decomposizione. Eppure, alcuni elementi aprono alla speranza. Una civetta, richiamo del monaco, veglia solitaria nella notte tra le rovine, come un’attenta sentinella che attende l’alba con gli occhi aperti, per contemplare la luce di un sole che rinasce dopo il suo viaggio notturno. Una pietra rettangolare è collocata dietro l’albero. È simbolo della chiesa, dell’amore che schiaccia le corna del caprone. La chiesa uccide il diavolo, colui che separa, divide, accusando l’uomo di fronte a Dio. Un cranio è appoggiato a terra. È il richiamo alla morte, al carattere effimero della vita umana. Della vanità di ogni cosa terrena. È un memento mori. Nel battente di destra, tutto invece rimanda alla vita, meglio, all’attesa di una rinascita. Un albero vivo e rigoglioso fa come da contrappunto al precedente. Tuttavia si presenta spoglio, senza foglie o fiori o frutti. Nella sua veste invernale, rimanda alla nudità e all’essenzialità della vita religiosa. Non solo. La sua forma suggerisce un abbraccio, quasi potesse avvolgere colui che entra. All’albero è appesa una campana, immagine dell’eremitismo, dagli innumerevoli significati. Un uovo, simbolo della vita che sta per schiudersi, è infine collocato per terra, alla base della porta. Siamo di fronte a un paesaggio pasquale, in attesa, sospeso tra l’assenza del sabato santo e la risurrezione della domenica.

La porta non si guarda tuttavia solo dal davanti. Dall’altro lato, infatti, ci accolgono sei formelle. Come pagine di un libro aperto, narrano le virtù della vita solitaria. Con le scritte a caratteri d’oro sembrano brillare nell’oscurità della notte. Sopra le scritte, un passero solitario è rivolto verso la campana, verso l’assoluto che ci chiama. E nella solitudine del proprio cammino, ogni uomo è chiamato ad attraversare questa porta invisibile, per ascoltare e vedere il segreto stesso della vita.